Vai ai contenuti

1960 inizi - Lavello urinatoio

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



“1960 inizi - Lavello urinatoio”

Primi anni '60


Non so oggi quanto tale pratica sia diffusa nei giovani, ma certamente la generazione maschile della prima metà del secolo scorso, allora e per molti lustri successivi, trovava più comodo urinare nei lavandini, piuttosto che recarsi alla ricerca di una toeletta.
Forse quest’abitudine era anche favorita dalla scarsità di servizi igienici a portata di mano, o forse dalla maggior facilità a mirare in un lavandino da pochi centimetri che indirizzare correttamente il getto in una tazza ad un metro di distanza, col rischio di schizzare il pavimento e le proprie scarpe.


I nefrologi certamente erano tra i più fedeli praticanti di quest’abitudine ed il lavandino del laboratorio nefrologico fu per lungo tempo, non il solo, ma certo tra i più utilizzati per tale pratica.
Il prof. V. proseguì in tale abitudine più signorilmente nel suo studio, preferendo il lavabo, anche quando finalmente ebbe a disposizione un adiacente servizio privato interno, con la tazza a poco più di mezzo metro dal lavandino.


A giustificazione di tale prassi si era soliti citare (realtà o leggenda?) un grande cattedratico, il prof. G., già direttore dell’Istituto di Clinica Medica che, consultato sulla ristrutturazione del suo studio, alla richiesta dell’altezza a cui installare il lavello, si era avvicinato alla parete ed aveva indicato con la mano, ai muratori, l’altezza del cavallo dei suoi pantaloni.


Altra spiegazione, professionalmente più nefro-urologica, giustificava la prassi con il presunto intento di controllare il colore e l’aspetto dell’urina emessa che, sullo sfondo bianco della maiolica, consentiva, a distanza più ravvicinata, nel modo più precoce e preciso, di cogliere il segno di un’eventuale possibile improvvisa ematuria asintomatica.


La disinvoltura di tale prassi induceva spesso i colleghi a fare scherzi al soggetto intento in tale operazione, simulando l’ingresso improvviso di qualche signora o meglio ancora di una suora, per indurre il malcapitato ad un rapido occultamento nei pantaloni dell’attributo estratto, prima del completamento della minzione, con relativo sgocciolamento interno.


Tra i tanti, i dottori P., V. e L., giovani assistenti volontari, erano abituati a scambiarsi tale scherzo, e maggior gusto si provava quando la vittima era il dott. V., che lamentava già allora qualche ipocondriaco problema prostatico, per il quale era spesso preso in giro.


Le visite in ambulatorio, in quel periodo, erano tenute nei locali del sottopiano, antecedenti a quelli della Radiologia allora diretta dal prof. B.. Il piano era “governato” da un cerbero di suora caposala, suor G., molto temuta per l’influenza che godeva nei confronti del direttore della Clinica, anche per la sua funzione di cassiera, incaricata della riscossione delle parcelle dei pazienti ricoverati nell’ala “pensionanti” e delle prestazioni diagnostiche a pagamento.


Un mattino, mentre nel locale a fianco visitava il dott. P., al termine delle sue visite ambulatoriali il dott. V. si accinse ad una delle abituali minzioni nel lavandino del locale.
Alla porta dello studio sentì bussare.
Convinto fosse il solito P. che cercava di interrompere la sua minzione, si girò verso la porta e scrollando lo “strumento” con la mano, con la massima ostentazione, gridò un provocatorio: “avanti suora, avanti, entri pure”.
La porta si aprì ed entrò effettivamente la caposala suor G., lasciando nella costernazione il giovane medico a profondersi in scuse. Con un'occhiata gelida e sprezzante la suora si limitò ad apostrofare il V. con la frase: “voi medici siete tutti dei porci”, facendo dietro front e tornando nel suo studio, ma stranamente gli consentì di cavarsela e non lo fece cacciare.


Molti si stupirono che il dott. V. se la fosse potuta cavare così, e si pensò fosse stato risparmiato per il fatto di essere figlio del primario medico e direttore sanitario di un piccolo Ospedale Cittadino, che era anche stato compagno di corso del prof. G. C. D..
Il dott. V., molti anni dopo, ormai in pensione, raccontò di essere stato graziato, in realtà, per la fortunata circostanza di essere stato, in quel periodo, il medico curante del prof. B., per il quale la suora nutriva una vera devozione.


Il prof. B., iperteso, voleva mantenere il riserbo sulla sua patologia e si rivolgeva discretamente al giovane collega per farsi misurare frequentemente la pressione e, quando usciva, la suora, preoccupata, si recava furtiva dal dott. V. per chiedere notizie sulla salute del “suo” professore, ottenendo complici rassicurazioni, e per tali indiscrezioni gli era molto grata.


L’abitudine dei medici ad andare ad orinare nel lavandino del laboratorio si ridusse molto, successivamente, da quando il tecnico Rotunno acquistò una fotocamera Polaroid, che utilizzava per frequenti fotografie al personale del reparto, sino a costruirsi una ricca collezione d’immagini, a partire dalla fine degli anni ’60, sino al termine della sua permanenza nel reparto.


I suoi soggetti preferiti erano ovviamente le giovani infermiere più carine, ma alcuni scatti indiscreti ed irrispettosi, fatti inaspettatamente, sorpresero anche un paio di tali operazioni.


Una volta fu ripreso il prof. P. ed un’altra il dott. S., inducendo loro e gli altri medici a ricercare altrove lavelli più sicuri, dove la discrezione fosse meglio rispettata.
Ovviamente tali fotografie furono distrutte e di tali fotogrammi non rimane traccia, ma Rotunno poté, da allora, usufruire in maniera quasi esclusiva del “suo” lavello, per conservare personalmente la tradizione, alla quale è tuttora legato, da vecchio single in pensione, mantenendola, in privato, ormai solo più nell’intimità della sua abitazione.

Michele Rotunno


Torna ai contenuti