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1969 - Lo scandalo delle Cliniche, nella Sanità Torinese

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



"1969 - Lo scandalo delle Cliniche, nella Sanità Torinese"


La cosiddetta rivoluzione studentesca del 1968, partendo da un desiderio di rigore etico e morale, produsse, nella sua degenerazione, disordini e tafferugli, e certamente all’epoca non mi vedeva con essa solidale. Le mie convinzioni politiche erano di stampo liberale e conservatore, risultato di vaghe reminiscenze scolastiche di storia post risorgimentale, esaltanti la sobrietà ed il rigore dei vari Ricasoli, Lanza, Sella, etc. Le manifestazioni, le occupazioni ed i tumulti, con violenza di piazza e vandalismi, di cui sentivo riferire dai giornali e vedevo nei servizi trasmessi in televisione, urtavano i miei sentimenti.


Tuttavia mi capitò di essere testimone di alcuni di quegli eventi, i cui effetti coinvolsero marginalmente anche la mia vita lavorativa, e mi consentirono di assistere all’inizio del declino di quel consolidato e tirannico potere dei Baroni Universitari, soprattutto di quello della Facoltà di Medicina.


Tutto iniziò nell’autunno del 1969, da una manifestazione di qualche centinaio di dipendenti universitari, tecnici, impiegati e bidelli, che protestavano per ottenere miglioramenti economici e normativi.

Le qualifiche con le quali si veniva assunti all’Università in quel periodo erano molto varie e astruse e, col tempo, invece di diventare più semplici e chiare, hanno continuato a complicarsi, con sigle e denominazioni sempre più contorte. Io, assunto nel 1966 come fatturista in Clinica Medica, in quel periodo ero ancora inquadrato in maniera precaria, con la qualifica di avventizio di 2° categoria, ottenuta quasi due anni dopo l’assunzione, ed ambivo, come molti altri miei colleghi in analoga situazione, ad un inquadramento più stabile, quello di diurnista statale.


Nel corso della manifestazione alla quale anch’io presi parte, trovandomi addirittura coinvolto nell’occupazione del rettorato, sino all’intervento di sgombero delle forze dell’ordine, alcuni sindacalisti lanciarono pesanti accuse alla gestione dei proventi delle Cliniche che i baroni universitari incameravano, a loro dire, in maniera arbitraria, sottraendone la quota spettante all’ateneo. Uno dei più attivi sindacalisti di quel periodo, Maglione, detto il “rosso”, non so bene quanto per il colore dei suoi capelli o per la collocazione politica, essendo segretario aziendale della CGIL, denunciò che con quei mancati introiti l’Università avrebbe potuto risolvere il contenzioso sindacale in atto.


La notizia giunse all’orecchio di due cronisti della “Gazzetta del Popolo”, uno dei due giornali torinesi dell’epoca, che già stavano lavorando su un intervento della Corte dei Conti sull’amministrazione dell’Università di Torino, e ne presero spunto per un'intervista al Magnifico Rettore, Mario Allara.
Il resoconto dell’intervista diede avvio ad una serie di articoli sui rapporti tra Università, Cliniche ed Ospedale, ripreso anche da altri giornali nazionali, che dovevano poi innescare l'indagine giudiziaria di un giovane Pubblico Ministero, Vladimiro Zagrebelsky, che sfociò, nel 1973, nel processo contro dodici Professori che rappresentavano gran parte dell’Elite Medica torinese.




Con tale inchiesta i due cronisti, Vito Napoli e Claudio Donat Cattin (figlio del ministro DC), vinsero poi il premio di giornalismo Saint Vincent.  In quegli articoli si sollevò il velo sui proventi delle attività private dei Clinici, esercitate nelle strutture universitarie, utilizzando risorse pubbliche.  

Venne riferito che, in base ad una vecchia convenzione, l’Ospedale avrebbe dovuto trattenere per se il 30% sulle prestazioni ambulatoriali, ed il 25% sulle degenze private. Il rimanente avrebbe dovuto essere versato nelle casse dell’Università e ridistribuito alle Cliniche in base a quote stabilite dai regolamenti universitari.


I due giornalisti denunciarono un possibile peculato per oltre due miliardi di lire, maturato nei precedenti cinque anni.
L’inchiesta giudiziaria iniziò poche settimane dopo la denuncia del giornale, con un’improvvisa ispezione presso un reparto dell’Ospedale Ostetrico Ginecologico torinese, da cui era giunta la segnalazione che si stessero bruciando ricevute compromettenti. Il Clinico coinvolto, sospettato di voler cancellare le prove, a parere degli investigatori, sembrava avesse effettuato, nei tre anni precedenti, 9000 visite private, per un importo di 150 milioni.


Sull’onda della contestazione studentesca che dal 1968 aveva iniziato ad occupare aule e sedi universitarie, anche in Clinica Medica, stimolati da quel clima, vi era stata una ribellione di parte degli assistenti medici e del personale universitario, con continue assemblee nell’aula dell’istituto, a cui parteciparono assistenti, studenti, personale tecnico e persino malati.

Fu uno shock o, come si disse allora, “un autentico atto rivoluzionario, inteso a rompere il clima di autoritarismo del cattedratico e di sottomissione degli assistenti e del personale non medico” che aveva sino allora caratterizzato la vita nelle Cliniche Universitarie.


Si creò un Consiglio d’Istituto con l’incarico di gestire l’attività della Clinica, che sedeva praticamente in permanenza, tipico regime assembleare mutuato dagli studenti contestatori di quel periodo, alle cui sedute veniva ad assistere molta gente anche da altre sedi, viste da molti stupiti partecipanti, tra cui il sottoscritto, quasi come fossero rappresentazioni teatrali. Tra i molti argomenti trattati, si affrontò anche il problema dei proventi e della loro redistribuzione.  Ricordo le figure di alcuni assistenti medici come Turco, Massara, Pescetti, Losana, al pari di antichi tribuni, arringare gli astanti, nell’aula della Clinica Medica, relazionando appassionatamente sugli sviluppi degli eventi ed avanzando proposte di trasparenza e di democratizzazione delle attività, tra gli scroscianti applausi dell’uditorio.


Con la presa di potere dei subordinati, il Direttore si vide costretto, dopo essersi presentato in aula ed aver costatato, cereo in volto, la determinazione dell’assemblea, a riconoscere la validità di quell'esperienza, avallando le scelte del Consiglio.


Venne allontanata la temuta suora che si era da sempre occupata della riscossione dei proventi e venne assunto un ragioniere per sostituirla nella contabilità.  Il nuovo contabile, assunto come avventizio, nel breve periodo della sua permanenza, scoprì in un cassetto dell’ufficio della caposala dei bollettari anonimi, non intestati né all’Ospedale né all’Università, ma comprati in tabaccheria e senza intestazione,  sui quali la suora registrava i proventi di una delle tante attività della Clinica, quella delle prime scintigrafie, che si cercherà poi in dibattito di comprendere in quali tasche fossero finiti.


In tribunale il ragioniere testimoniò poi che, alla richiesta di spiegazioni posta alla segretaria di cosa fossero, si senti rispondere che erano “roba vecchia” e lui li ripose nel cassetto. Il giovane impiegato lasciò presto il suo incarico ed in sua sostituzione venne assunto, dal prof. Dogliotti, un colonnello dell’esercito ancora in servizio, con la qualifica di capo contabile.


Durante una perquisizione ordinata dal Pubblico Ministero, nel febbraio del 1970, questi bollettari stranamente non erano stati trovati, ma comparvero solo una settimana dopo, casualmente rinvenuti dal prof. Dogliotti, sceso negli uffici col bidello, per cercare dei classificatori nello studio della suora, di cui si era fatto dare la chiave dalla segretaria, manifestando stupore per la scoperta.
L’ufficiale dichiarò poi in tribunale che, da quel momento, su ordine del Consiglio d’Istituto, i proventi delle scintigrafie furono versati all’Università, non riuscendo a chiarire, nonostante il vibrato richiamo del Presidente della Corte, da chi avesse ricevuto l’ordine e se il Direttore fosse stato o no in precedenza al corrente della presenza dei bollettari anonimi.


Il prof. Dogliotti, venne chiamato a rispondere in quel processo per la bella cifra di 571 milioni di lire complessivi, divisi in sei capitoli, alcuni grandi altri piccoli. E’ proprio su uno dei più piccoli, di soli 16.286.400 lire, cui fanno riferimento i bollettari anonimi per la riscossione degli importi dovuti per l’esecuzione delle scintigrafie, su cui si trovò più in difficoltà la difesa, per il rischio di veder trasformata l’accusa da errori in buona fede a dolo.




Il capitolo di maggior importo riguardava invece gli introiti di un reparto della Clinica Medica di 41 letti (i Pensionanti), dei quali pare non vi fosse traccia in nessun bilancio, né universitario né ospedaliero, figurando i pazienti ricoverati come clienti privati del Clinico, con tariffe di gruppo C, secondo il tariffario dell’Ordine dei Medici dell’epoca.


Il processo si protrasse a lungo, ed il resoconto delle udienze venne, con risalto, portato dai giornali a conoscenza della cittadinanza. La difficoltà di districarsi tra leggi, circolari, convenzioni, norme e prassi, spesso vaghe e contraddittorie, provocò vivaci discussioni tra la pubblica accusa ed i numerosi collegi di difesa. Alcuni dei principali testimoni dell’amministrazione universitaria (il rettore Allara) ed ospedaliera (il presidente Santi), responsabili dei primi accordi, erano ormai deceduti, e le testimonianze dei sopravvissuti o dei successori, spesso, confuse ed incerte.


Si partiva da una convenzione del 1950 tra Ospedale ed Università, innestatasi sui regolamenti amministrativi ospedalieri del 1938, elaborata prima dal Consiglio dei Clinici e poi dal Consiglio di Amministrazione dell’Università, che disciplinava i rapporti economici tra Ospedale e Cliniche,  ripartendo i proventi ambulatoriali. In un primo tempo la difesa dei Clinici sostenne il principio che, negli ambulatori delle Cliniche, personale ed attrezzature fossero universitari, quindi nulla fosse dovuto all’Ospedale. Questa tesi era stata accolta nel 1963 dal defunto presidente del S. Giovanni, avv. Santi, che aveva persino invitato, con una lettera, le Mutue a non versare più i soldi all’amministrazione ospedaliera ma direttamente sui conti correnti delle Cliniche. Qualche anno dopo in seguito ad una circolare del Ministero della Pubblica Istruzione Gui, del 21/4/1970, in cui si riportava: “tutti i proventi delle Cliniche devono essere versati alle casse dell’Università per essere amministrati in conformità alle leggi vigenti”, ed a nuove più severe disposizioni del ministero per bloccare le evasioni, i Clinici ci ripensarono. In base alla circolare tutti i versamenti sarebbero dovuti andare all’Università, invece molte Cliniche li versavano all’Ospedale, che dedotto il 12% di ritenute erariali, li restituiva ai Direttori delle Cliniche. Il 12 giugno successivo i Clinici, per giustificare il loro comportamento, che d’altra parte l’Università non aveva mai contestato, benché ne fosse la diretta danneggiata (i famosi 2 miliardi e rotti di mancate entrate), affermarono, in una riunione di consiglio, il contrario di quanto asserito sette anni prima, e cioè che nulla fosse dovuto all’Università, in quanto le Cliniche funzionavano nell’ambito degli Ospedali, e decisero di considerarsi ospedalizzati. Questa tesi venne approvata dal Consiglio di Facoltà, nel luglio del 1970, ed a seguito di questa decisione il Rettore Allara inviterà il Presidente dell’Ospedale Dardanello a considerare i Direttori come Primari. Dardanello accolse questa tesi.

Restava inoltre la difficoltà di interpretare bene la convenzione del 1950 fra Ospedale ed Università. Essa era stata compilata su moduli ministeriali che andavano bene dove le Cliniche erano ospiti degli Ospedali, mentre alle Molinette era l’Università ad essere proprietaria delle Cliniche.


Il tribunale (terza sezione Presidente il giudice Iannibelli) emise il 12/12/1973, dopo un lunghissimo periodo di permanenza in camera di consiglio, sentenza di condanna per quattro imputati ed assoluzione per gli altri. Nella motivazione la discriminante tra i condannati e gli assolti, fu sostanzialmente legata al fatto che i primi, più anziani, erano stati presenti alle discussioni al Consiglio Universitario che aveva discusso il problema, di cui non potevano essere all’oscuro, rendendosi così responsabili di peculato continuato aggravato. Gli altri, gli assolti, non avendo partecipato a quella riunione, vennero ritenuti non consapevoli di commettere reato, essendosi adeguati, in buona fede, alla prassi corrente.
Il prof. Dogliotti venne condannato in primo grado a quattro anni e otto mesi.



Alla sentenza venne fatto ricorso ed in appello i quattro condannati videro ribaltata la sentenza, con il riconoscimento della loro innocenza, nella sentenza emessa nel dicembre del 1974.

Restò ancora un piccolo strascico per il prof. Dogliotti per una somma di poco più di dieci milioni, legata a sperimentazioni con case farmaceutiche, che la sentenza chiese venisse riesaminata, ma che si esaurì con la morte del prof. Giulio Cesare Dogliotti, avvenuta il 16 marzo del 1976, al termine di una grave malattia che lo vide ricoverato alle Molinette, per gli ultimi due mesi della sua vita, poco dopo aver compiuto i settant’anni.


Michele Rotunno


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