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1975 - Autoespianto di vena per creazione di accesso vascolare

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



"1975-Aprile - Auto espianto di vena per la creazione di accesso vascolare"

Aprile 1975

Oggi, la rigida organizzazione del servizio sanitario, le linee guida, le certificazioni, le procedure di sicurezza, la più severa burocrazia gerarchica, ma sopratutto il timore di incorrere in denunce e sanzioni, non consentirebbero certo il riproporsi di episodi come quello che mi accingo a raccontare. In quell’epoca di medicina pionieristica invece erano lasciate ai medici molta maggior discrezionalità e possibilità d'improvvisazione.


Una premessa per i non addetti ai lavori: per poter effettuare l’emodialisi, i pazienti uremici necessitavano, allora come oggi, di un accesso vascolare che consentisse al loro sangue di essere inviato al “rene artificiale” per la depurazione e di essere reinfuso, una volta depurato, nel sistema circolatorio del dializzato.


A partire dagli anni ’50, in condizioni d'insufficienza renale acuta (vale a dire la messa fuori uso della funzione renale per situazioni di malattia improvvisa, ma reversibile) gli accessi vascolari necessari si avvalevano dell’incannulamento estemporaneo delle arterie o delle vene femorali. Questa procedura poteva essere ripetuta un limitato numero di volte, comunque entro un periodo sufficiente, in genere, a permettere il cosiddetto “sblocco” della funzione renale.
I reni, superato la fase acuta della malattia, divenivano rapidamente in grado di far fronte alle necessità dell’organismo ed il paziente recuperava una funzione renale pressoché normale nel volgere di qualche mese senza più necessità di assistenza dialitica.
Nel caso dei pazienti in insufficienza renale cronica, invece, per la necessità di essere trattati cronicamente (mediamente 2-3 volte alla settimana per tutta la vita) questo sistema non poteva ovviamente essere utilizzato, perché le vene e le arterie femorali si usuravano rapidamente.


Per questo motivo l’emodialisi cronica divenne realizzabile solo dieci anni dopo, allorché divenne disponibile una forma stabile d'incannulamento, inventata negli Stati Uniti ed esportata in tutto il mondo: lo shunt artero-venoso.
Questo dispositivo consisteva nell’innesto in un’arteria ed in una vena di due tubicini di teflon, che fuoriuscivano all’esterno da due incisioni sulla cute ed erano collegati, in condizioni di non uso da un ponte di teflon che faceva si che il sangue dell’arteria defluisse direttamente nella vena.

Al momento dell’uso per l’emodialisi, si sconnettevano, a livello del ponte, le due branche dello shunt: quella arteriosa veniva connessa con la mandata di sangue al dializzatore, quella venosa con il tubo che faceva rientrare nel corpo del paziente il sangue depurato.


A Torino i primi shunts vennero impiantati a partire dal 1965, da alcuni assistenti della Clinica Chirurgica, sotto la direzione del prof. F., che se ne faceva carico direttamente per la maggior parte delle volte.
I Nefrologi impararono la tecnica assistendo ai primi interventi come operatori in seconda.


Anche per le successive fistole artero-venose, che sostituirono progressivamente gli shunts, oggi del tutto abbandonati, venne seguito lo stesso iter.
Il giovane nefrologo che meglio apprese tali tecniche operatorie fu S. La sua disponibilità e bravura in tali interventi fu tale da creargli, con il trascorrere degli anni, una reputazione tale, da richiamare a Torino molti pazienti che in altri centri italiani erano dichiarati non più idonei dai locali chirurghi alla creazione di accessi vascolari, peraltro indispensabili per la prosecuzione della dialisi e quindi, molto spesso, per la sopravvivenza stessa del paziente.

Va ricordato come, in quei tempi, l’unica altra via alla sopravvivenza dei pazienti in uremia cronica era la dialisi peritoneale, che non sempre era praticabile su tutti i casi ed in tutte le sedi.


Il chirurgo F. aveva un carattere un po’ scostante ed un atteggiamento che incuteva molta soggezione ai nefrologi giovani e meno giovani del tempo. Per questo, quando si trattava di individuare chi avrebbe dovuto fare da “ secondo”, si assisteva ad un certo fuggi-fuggi generale e si demandava molto spesso (non che potesse scegliere, N.d.R.) al giovane S, ancora studente, il ruolo di partner chirurgico del temuto prof. F.
Per le strane alchimie dei caratteri e delle affinità elettive, fra i due, il Chirurgo famoso e l’ultimo degli aspiranti nefrologi, si stabilì un’imprevista intesa, destinata in seguito a trasformarsi in una solida amicizia, che li unirà per i lunghi anni a seguire.


Il futuro dr. S., a partire dal terzo intervento, si accattivò l’apprezzamento del prof. F., facendogli  trovare il tavolo operatorio come Lui esigeva. Il prof. F. lo individuò, da quel giorno, come il suo “assistente” preferito e gli trasmise, nel corso degli anni, tutti gli insegnamenti operatori, prima per quanto concerneva la tecnica d'impianto degli shunts e poi per quella dell’allestimento delle fistole artero-venose.
Verso la meta degli anni '70, dopo un centinaio di fistole eseguite insieme, il chirurgo ritenne S. in grado farsi carico da solo, con l’assistenza degli altri nefrologi, della gestione di questi interventi ai quali partecipò solo più occasionalmente, su richiesta di S., che non dimenticò mai il suo Maestro.


All’inizio non esisteva una vera e propria camera operatoria, ma gli interventi venivano eseguiti solitamente in uno stanzino piastrellato di rosso, in precedenza utilizzato per lo sviluppo delle radiografie dai cardiologi che operavano allora allo stesso piano della Clinica Medica. Il medico operatore era assistito da un collaboratore, in genere un medico più giovane o meno esperto od un allievo, che così imparava sul campo ad operare.
Molto spesso l’indisponibilità di operatori più qualificati, portava al compito di “assistente”, personale sanitario improvvisato a quel ruolo. Occasionalmente, quando persino tutti gli infermieri erano impegnati in altre attività, persino io, tecnico di laboratorio, ero ingaggiato per fare il “secondo operatore”, destreggiandomi a tendere lacci per “clampare” arterie e vene, durante l’incisione e la sutura del “primo operatore”, e rilasciarli ad intervento concluso.


L’intervento certamente più anomalo avvenne in Clinica Medica nel 1975, epoca nella quale accadeva sovente che i pazienti andassero incontro ad un progressivo consumo di  tutte le vene disponibili (ogni volta che uno shunt si occludeva, era necessario impiantarne un altro, ma tutte le vene a valle di quello erano perdute per sempre) e che per tali ragioni non potevano più essere dializzati.
Non esistevano ancora le protesi sintetiche che oggi permettono di superare agevolmente queste situazioni.
Un giovane paziente alessandrino, M. P., quasi coetaneo di S., affetto da svariate gravi patologie, non disponeva più di vene utilizzabili per la ricostruzione di un accesso vascolare che gli consentisse la prosecuzione della dialisi.


La determinazione del giovane nefrologo S. nel tentare ogni strada per offrire speranza di sopravvivere anche ai pazienti più difficili gli era da tutti riconosciuta.
Da poco era già morta una donna, a cui tutti eravamo affezionati, per lo stesso problema, ed S. non voleva rassegnarsi ad un’altra perdita.


Da incontri con altri colleghi aveva sentito dire che in Francia si era riusciti a vicariare la mancanza di vene proprie, impiantando nel paziente in dialisi una vena safena proveniente dalle safenectomie eseguite per varici, nelle sale operatorie dei chirurghi vascolari.
Si trattava, ovviamente, di utilizzare quelle parti  di vena ancora integra, piuttosto limitate, ma armandosi di pazienza, di ago e di filo (chirurgico!), da più safene rovinate, qua e là, dalle varici si potevano ricuperare segmenti sani, cosi da ricostruire un vaso sufficientemente lungo da poter essere utilizzato per la fistola.


Malauguratamente, il prof. F., che nel frattempo era divenuto primario della chirurgia vascolare ospedaliera, non aveva fiducia in questa procedura e non ne voleva consentirne l’uso.
Per aggirare l’ostacolo, S. decise quindi, quale estremo tentativo, di ricorrere ad un intervento “carbonaro”, del quale peraltro gli era già stata negata l’autorizzazione in passato dal suo Direttore, ma che, invece, S. considerava un’alternativa ragionevole.


Una domenica pomeriggio, approfittando della solitaria tranquillità offerta dal giorno festivo, durante il turno di guardia di un giovane collega ed amico, C., procedette, in anestesia locale, all’auto prelievo chirurgico della vena basilica dell’avambraccio sinistro, operandosi con la mano destra, aiutato dal suo “complice” che, pur un po’ perplesso, teneva i divaricatori.
Non essendo in grado di fare dei passanti per sfilarla, si fece un taglio lungo tutto l’avambraccio. Si ricucì da solo fino a dove poté, poi si fece aiutare da C. per completare la sutura (in seguito faceva notare a tutti che i punti autogestiti avevano lasciato una cicatrice di gran lunga migliore).
Bendato il braccio sinistro, senza particolare dolore in quanto l’anestesia era stata adeguata, iniziò immediatamente ad operare il paziente, su un nuovo tavolo operatorio, per innestare la vena appena prelevata.


La fistola funzionò subito, ma solo per quattro giorni, quando ebbe un rigetto violentissimo, nonostante il gruppo sanguigno di S. fosse zero negativo. Il paziente riuscì comunque ad effettuare due dialisi e sopravvisse.
S. dichiarò a casa, ai suoi famigliari, di essersi bruciato, per giustificare il bendaggio, ma poi sviluppò una flebite piuttosto severa, si spaventò parecchio e ricorse al prof. F. per sapere cosa fare.
Il prof. F. rimase esterrefatto (anche un po’ sconvolto) dalla storia, si arrabbiò parecchio, redarguì severamente S. per la sua cocciutaggine, ma dal giorno dopo concesse le safene, che consentirono un nuovo innesto al paziente, che durò nel tempo.
S. imparò così che le vene, prima di essere trapiantate, dovevano essere trattate con formalina almeno per 8 ore, non solo per sterilizzarle, ma soprattutto per distruggere gli antigeni che, altrimenti, avrebbero innescato il rigetto (com'era accaduto alla sua sfortunata vena basilica), poi lavate in fisiologica con antimicotico ed antibiotico e, solo dopo, impiantate.


Questo episodio cambiò la storia degli accessi per la dialisi, per lo meno a Torino. Ad un paziente, M., poco dopo, un analogo intervento consentì una sopravvivenza di altri 10-12 anni e molti altri pazienti debbono la vita a quell’eroico, un po’ folle ed un po’ guascone episodio, il più eclatante, ma non certo il solo di quell’epopea.


Ricordo che lo stesso medico, anni dopo, si comportò ancora una volta in maniera “irrituale” e non consentita, al letto di un paziente trapiantato affetto da una serie di emorragie intestinali gravissime, che non si riuscivano ad arrestare. Quando già lo si stava per perdere, esaurita la scorta di sangue disponibile presso la Banca Ospedaliera, S. tentò un’ultima estrema trasfusione donandogli mezzo litro del proprio sangue, prelevandolo direttamente dal suo avambraccio, al letto del paziente.


Forse per la buona stella del paziente, forse per la buona qualità del sangue, l’emorragia cessò e fu possibile superare quel difficilissimo momento. Al termine delle manovre, S. venne barcollante verso la porta, dove lo aspettavamo, senza riuscire a centrare l’uscita, ma andando a sbattere contro lo stipite. Sostenendolo lo accompagnammo a fare una sostanziosa colazione al bar interno, allora ubicato nel sottopiano della Clinica Odontostomatologica.

Michele Rotunno



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