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Emarcio!

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Ematcio!


Torino, Ospedale Nuova Astanteria Martini, tra il 1980 ed il 1985

Venne dal sud, per frequentare la Scuola torinese di Specializzazione in Nefrologia, un collega siciliano, il dottor G., e rimase con noi, all’Ospedale Nuova Astanteria Martini (oggi Ospedale San Giovanni Bosco), per parecchi mesi.
Si trattava di una persona collaborativa e gradevole, priva dell’ombrosità e del sussiego caratteristici di tanti suoi conterranei, che così limpidamente ci vengono descritti dal siciliano Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”, allorché confronta il carattere del plenipotenziario sabaudo Chevalley con quello del Principe di Salina:
“Benché onesto, però, Chevalley non era stupido: mancava sì di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità e poi non aveva la impenetrabilità meridionale agli affanni altrui” (cfr: Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”, Feltrinelli Edizioni, Milano 1959, pag. 215).
Il dottor G., dunque, non era così. Era una persona simpatica, almeno a me, e ricordo con piacere la mia collaborazione con lui, che continuò proficua per anni, anche dopo il suo ritorno in Sicilia.
Il dottor G. aveva tuttavia una pronuncia siciliana caratteristica e strettissima, di quelle - per intenderci - che fanno dire, al posto di “madre”, un qualcosa come “matce”, “Tciapani” per “Trapani”, “Tcemendo” per “tremendo” e così via.
Naturalmente, questa sua particolare pronuncia non rappresentò mai un problema, né per lui né per noialtri, almeno sino al giorno in cui mi accinsi, in sua compagnia, a visitare un anziano contadino delle montagne della Val di Susa – il classico “parin” piemontese – in dialisi periodica e colpito da una grave forma di osteodistrofia uremica con iperparatiroidismo secondario.
In conseguenza di questa sua patologia, il paziente in questione aveva un ginocchio assai gonfio e dolente per via di un versamento di sangue all’interno dell’articolazione, cosa che viene definita in medicina con il termine tecnico “Emartro” (queste precisazioni vanno ovviamente a beneficio di un eventuale lettore non medico).

Orbene, si verificò in quella occasione il seguente assai curioso episodio. Ci avvicinammo al letto ed dottor G. salutò il cortesemente paziente, che era inquieto e dimostrava molta apprensione per le proprie condizioni. Poi si sedette sul bordo del letto, scoprì il ginocchio in questione, lo osservò e lo palpò a lungo sotto lo sguardo del paziente, che non perdeva il più piccolo movimento delle sue mani, spostandosi ripetutamente avanti ed indietro da esse al viso del medico. Quindi, indicando il ginocchio con la palma aperta della mano, si voltò verso di me e pronunciò con un tranquillo tono di certezza una sola parola: “Ematcio!”.
Era il suo modo di pronunciare la parola “Emartro”, ma il paziente non lo sapeva.
Subito il vecchietto si afferrò il ginocchio con entrambe le mani e gridò quasi:
“Che cosa? Che cosa è marcio?”.
Il dottor G., completamente all’oscuro dell’equivoco, ribatté seraficamente:
“Ma il suo ginocchio, naturalmente!”.
Ed il paziente:
“No! No! Il mio ginocchio non è marcio!”.
Devo confessare che non intervenni immediatamente per chiarire la situazione all’uno ed all’altro. La cosa era tcioppo divertente. Con un pizzico di sadismo, rimasi in silenzio per qualche minuto, ad ascoltare il seguito del colloquio, e poi dovetti intervenire, dato che il malinteso non si chiariva.
Spero che le spiegazioni che demmo all’anziano paziente siano risultate per lui esaurienti ed efficaci, ma mi è sempre rimasto, in fondo in fondo, il dubbio che il nostro valsusino abbia in seguito, e per molto tempo, rimuginato dentro di sé circa il brutale modo di esprimersi dei nefrologi siciliani.

Giuliano Giachino


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