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Honora infirmum

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11
HONORA INFIRMUM

Pier Luigi Cavalli
 
         Nell’atrio d’ingresso di uno dei maggiori ospedali di Torino si può ammirare un mosaico di fattura moderna che reca, in bella evidenza, una scritta perentoria: “Honora medicum, et enim illum creavit Altissimus” cioè “Onora il medico, poiché egli è stato creato dall’Altissimo”.
         La natura autoreferenziale di questa formula imperativa, ha sempre provocato in me un certo disagio. Essa sembra infatti identificare una figura di medico che si colloca a metà strada tra il sacerdote e lo stregone e una visione della medicina tra il religioso e il taumaturgico. Purtroppo i medici della mia età sono stati educati, professionalmente parlando, da maestri che, in gran parte, condividevano questi principi.
         Da millenni la medicina si sviluppa lungo due filoni, uno magico-religioso e l’altro tecnico-razionalistico: Asclepio ed Ippocrate, Paracelso e Vesalio, Michele Serveto e William Harvey, i grandi santuari mariani e i moderni policlinici supertecnologici. Esistono molte, talora insanabili contraddizioni tra queste due medicine, eppure esse continuano a convivere anche ai giorni nostri.
         Una contaminazione siffatta ha contribuito all’affermarsi di una connotazione fortemente paternalistica della professione medica, configurando una medicina di tipo salvifico anche in quello che potremmo definire il suo versante “laico”. E’ forte il rischio che da tutto ciò derivi per il medico, coscientemente o meno, un senso di onnipotenza cui è difficile resistere.
         D’altro lato, tuttavia, è spesso proprio il malato ad aver bisogno di credere che il medico a cui si affida sia onnipotente e si pone in un rapporto di assoluta dipendenza nella convinzione che lui soltanto sia in grado di farlo guarire.
         Dalla fine del secolo scorso si va affermando, in modo graduale ma inarrestabile, il principio di autonomia della persona malata. Questo principio afferma che il malato possiede, come ogni essere umano e nei limiti imposti dalla legge naturale, la completa libertà di agire e di disporre della propria persona secondo la propria volontà e senza che le proprie decisioni possano dipendere dalla volontà di nessun’altra persona. Un principio che comporta un deciso ridimensionamento del più che bimillenario paternalismo medico.
         Nonostante il fatto che l’atto burocratico del “consenso informato”, derivato da questa evoluzione, sia ormai entrato nella prassi medica, il principio di autonomia stenta ad affermarsi appieno e connotazioni fortemente paternalistiche sono facilmente riscontrabili ancor oggi nel rapporto tra medico, malato e familiari. Non c’è da stupirsi che esistano resistenze da entrambe le parti perché il principio di autonomia e il conseguente diritto di disporre del proprio corpo, sancisce un principio assolutamente rivoluzionario: il “diritto alla malattia”. Un principio duro da accettare, specie in una società e in una cultura che considerano la salute, intesa come totale assenza di malattie, uno dei valori principali.
         Mi è stato chiesto di parlare di come si configurano l’informazione e il consenso alla terapia quando il paziente è un medico. Per ragioni biografiche mi ritengo legittimato a parlare con cognizione di causa di quel sublime ossimoro vivente che è il medico malato, anche se ritengo l’argomento troppo vasto per essere approfondito in poche righe. Ma cercherò di mettere a fuoco pochissimi punti.
         In casi siffatti il “medico curante”, pur evitando doverosamente le bugie pietose, non può addolcire troppo la pillola, quando questa è amara, perché parla ad una persona che ha, o dovrebbe avere, la sua stessa competenza. Trovandosi ad affrontare questa ingrata incombenza, egli dà per scontato che il collega sappia le stesse cose che lui ha accertato e quindi si ritiene autorizzato, probabilmente con sollievo, a parlarne per accenni, talora scarsamente decifrabili, lasciando largo spazio al non espresso.
         Il “medico paziente” che, come tutte le persone, è portato a censurare gli elementi più temibili o sgradevoli del proprio stato morboso, non vuol fare la figura dell’ignorante di fronte al collega che l’ha in cura ed evita di porre quelle domande dirette che potrebbero dargli le risposte rassicuranti di cui sente la necessità, ma che potrebbero dimostrare ingenuità o ignoranza.
         Infine una diffusa retorica vuole che i coraggiosi non abbiano cedimenti o momenti di debolezza. Si sa: i soldati non debbono piangere e i medici si sentono soldati che lottano contro il male in prima linea. Per questo motivo il medico malato, guardingo nel dimostrare i propri sentimenti, esita, per rispetto umano, a richiedere quell’empatia di cui ha invece un estremo bisogno.
         Come si è detto il discorso potrebbe essere molto più lungo ed, in particolare, queste sono soltanto alcune delle esperienze vissute dall’estensore di queste noterelle.
Chi ha frequentazioni maggiori delle mie con le Sacre Scritture ha senz’altro riconosciuto la derivazione biblica della frase latina che ho riportato all’inizio dell’articolo. Essa è stata ricavata dal Libro Ecclesiastico, o Siracide (38, 1), da non confondere con l’Ecclesiaste (o Qoelet), di ben diverso spessore poetico. Per me, da ignorante qual sono non solo in queste cose, è stata una scoperta recente, resa ancora più sorprendente dal fatto che la citazione risulta manipolata subdolamente. La versione originale infatti suona: “Honora medicum propter necessitatem, et enim…” con quel che segue che diventa, nella traduzione ufficiale: “Onora il medico come si deve secondo il bisogno…”          Parrebbe di capire, ma questa è un’interpretazione del tutto personale, che la frase non significhi trattare con gli onori dovuti la persona del medico sempre e in ogni caso, ma mandare ad effetto gli impegni presi con lui per la cura. Come si onora, insomma, una cambiale, ma sempre nella consapevolezza che solo “dall’Altissimo viene la guarigione”.
         Un ridimensionamento non da poco di un’affermazione presuntuosa. E così ridimensionata, la si potrebbe quasi considerare un’anticipazione del consenso informato.
         Per i motivi che qui ho esposto se, per assurdo, mi fosse concesso di ridisegnare il mosaico che orna l’ingresso di quell’importante ospedale, io semplicemente, ma orgogliosamente, vi scriverei: “Honora infirmum”, senza aggiungere altri fronzoli superflui.




 
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