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I «bricoleurs» della dialisi

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11


I «bricoleurs» della dialisi.


Nei lontani e mitici anni Sessanta (ma che cosa avrà poi avuto di così straordinario quel tanto decantato decennio?), comparve una strana razza ormai quasi totalmente estinta, che potremmo definire la razza dei “bricoleurs della dialisi”.
Essi costituivano, in realtà, una sottospecie dell'homo faber, e i suoi componenti, non molto numerosi, raccolsero e svilupparono le idee di una stravagante scuola di pensiero la quale sosteneva che la funzione renale potesse essere sostituita da fogli di cellophan, opportunamente configurati e assemblati, e da alcune sostanze disciolte nell'acqua in determinate proporzioni.
La scuola di pensiero traeva le sue origini dagli esperimenti in corpore vivo di un curioso ma geniale personaggio, Willem Johan Kolff, chiamato Pim dagli amici, che a buon diritto viene considerato il padre del rene artificiale perché, dopo numerosi tentativi falliti (una quindicina) senza che per questo il suo ostinato ottimismo venisse minimamente scalfito, riuscì, con l'uso di quella complicata strumentazione, a far superare ad una donna di 67 anni un episodio di insufficienza renale acuta.
“Non ci sembra una grande idea” dissero subito i suoi numerosi detrattori. Infatti la miracolata era una riconosciuta collaboratrice dei nazisti e l'opinione diffusa (siamo in Olanda, nel 1945) era che sarebbe stato molto meglio che essa fosse stata lasciata al suo fatale destino.
I tempi erano però maturi per accettare questa invenzione e da quel momento, nonostante il fatto che le condizioni dell'immediato dopoguerra rendessero precaria la ricerca scientifica e difficoltose le comunicazioni, l'entusiasmo per l'uso della dialisi si diffuse rapidamente e moltissimi medici lungimiranti di varia nazionalità raccolsero l'idea di Pim, che nel 1950 si trasferì negli Stati Uniti, e vollero dare il proprio nome ai vari modelli di ‘rene artificiale’ che furono messi a punto in quel periodo. Anche italiani! Chi scrive, per amor di patria, spera che non cada nell’oblio il glorioso Rene Artificiale di Dogliotti-Battezzati-Taddei.

“Parecchi inventori che appartenevano al campo sanitario, in Europa e in Nord America, portarono il rene artificiale (emodialisi) ad un utilizzo pratico nei tardi anni Quaranta, ma i successi iniziali furono molto scarsi. Esso fu usato inizialmente soltanto per casi disperati di insufficienza renale acuta. Le autorità scientifiche in campo nefrologico che seguivano la tradizione ‘metabolica’ favorivano invece le terapie metaboliche e dietetiche quantificate di recente. Questa resistenza opposta alla dialisi rappresentava in parte un ragionevole scetticismo sui risultati ottenuti, ma anche una preferenza nei riguardi di ciò che costituiva ‘scienza’ nell’ambito della medicina.” (1)


Come si vede non tutti erano d'accordo sul fatto che il rene artificiale fosse in grado di salvare vite umane. Il partito degli oppositori era piuttosto nutrito ed alquanto agguerrito. Per di più, a causa della complessità tecnica e della laboriosità dell'accesso vascolare, la gestione del rene artificiale era sottratta, in gran parte, ai protonefrologi e gestita prevalentemente dai chirurghi, affiancati da ingegneri, tecnici ed altri esperti di discipline non mediche. La Rianimazione, come disciplina autonoma, non era ancora nata, ma all'ammucchiata non mancarono anche gli anestesisti.
Così si esprimeva John P. Peters, che era, in quel tempo, un'autorità in campo nefrologico:

“E’ stato dimostrato in modo convincente da Merrill, dai suoi collaboratori e da altri ancora, che un rene artificiale costruito secondo il disegno di Kolff, se affidato a mani capaci, è un dializzatore efficiente e ragionevolmente sicuro. Tuttavia non è certo che l’uso di questa apparecchiatura abbia materialmente modificato il destino dei pazienti affetti da nefrosi del nefrone inferiore.”
(2)

Si ripropone insomma l'antica antitesi tra cultura e tecnica, tra gnósis e téchne. Fu necessario attendere la guerra della Corea, quasi del tutto dimenticata ai giorni nostri, perché l'emodialisi venisse legittimata sul campo, è proprio il caso di dire, come trattamento efficace dell'insufficienza renale acuta.

Era il settembre del 1957 e frequentavo il quarto anno del corso di laurea quando entrai a far parte dell’equipe nefrologica del prof. Vercellone, presso l’Istituto di Patologia Speciale Medica, in qualità di allievo interno. Gli altri componenti del gruppo erano Franco Linari, Giuseppe Piccoli, Dario Varese e Franco Marullo Reedz, mio coetaneo.
La gestione del rene artificiale, messo a punto da Battezzati e Taddei, sotto l’ala autorevole e prestigiosa di A.M. Dogliotti, era amministrata dai chirurghi. Infatti erano loro che provvedevano al montaggio dell’apparecchiatura in un locale al piano terreno della Clinica Chirurgica e alla preparazione del (o della) paziente che comportava l’inserzione di due cateteri vascolari rispettivamente nella vena cava inferiore e nella vena cava superiore. Le sedute dialitiche erano praticate in due stanzette del settore operatorio, al primo piano della Clinica Chirurgica. All’epoca l’equipe chirurgica, capeggiata da Fulvio Caluzzi, era composta da Franco Margaglia, Giovanni Novario e Roberto Pattono. Quest’ultimo, come il sottoscritto, non era ancora laureato ma avrebbe fatto una prestigiosa carriera come anestesista-rianimatore.
All’epoca del mio ingresso nell’equipe la casistica dei pazienti trattati era modesta (cinque o sei casi in tutto, se ben ricordo) ma contava due successi importanti risoltisi con completa guarigione: un caso di glomerulonefrite acuta e un altro di intossicazione da idrogeno arsenicale. Successivamente furono trattati casi con varia eziologia, e un’incidenza piuttosto elevata avevano due cause oggi praticamente scomparse: l’aborto clandestino, provocato coi mezzi più disparati, e l’errore trasfusionale.
Roberto Pattono si faceva carico della preparazione dell’apparecchio che era laboriosissima, impegnava per un periodo superiore alle 24 ore e richiedeva una grossa quantità di sangue per il preriempimento del circuito ematico. Fulvio Caluzzi e Franco Margaglia provvedevano all’inserzione dei cateteri vascolari. I nefrologi sorvegliavano i parametri clinici durante la seduta: pressione arteriosa, peso corporeo e dati di laboratorio. Inesorabilmente i trattamenti iniziavano a tarda ora e si protraevano per gran parte della notte.
Il compito principale in cui Franco Marullo ed io ci alternavamo consisteva nel dosare, a scadenza oraria, la concentrazione di urea nel sangue, all’entrata e all’uscita del rene, e nel bagno di dialisi.
Come si può osservare i controlli dei parametri laboratoristici erano alquanto basic e la relativa strumentazione consisteva, in tutto e per tutto, nel glorioso “Ureometro Dall’Aira”. Ciononostante il nostro compito non era lieve, dal punto di vista fisico, perché, quando ci venivano consegnate le tre provette da dosare, dovevamo percorrere tutto il corridoio da un’estremità all’altra delle Molinette, dal momento che la Clinica Chirurgica si affacciava su corso Polonia mentre la Patologia Medica su via Genova. Il dosaggio non prendeva molto tempo, è vero, ma implacabilmente quando si consegnavano i risultati i nostri capi scuotevano accigliati la testa ed esclamavano all’unisono:

“Non è possibile. Ripetere!”
Le sedute dialitiche erano sempre molto movimentate. Non mancavano complicanze cliniche anche gravi come improvvise variazioni della pressione arteriosa o del peso corporeo ma gli inconvenienti più frequenti riguardavano incidenti tecnici legati all’apparecchiatura. Per esempio variazioni della temperatura del liquido dializzante in eccesso o in difetto oppure repentine perdite ematiche per rottura della membrana di cellofan. Per porvi rimedio, si faceva ricorso a soluzioni improvvisate, spesso raffazzonate e dagli esiti imprevedibili.
Le cronache interne, di solito colorite ma non sempre attendibili, tramandavano il seguente drammatico episodio avvenuto poco prima del mio ingresso nell’equipe nefrologica. Durante un’applicazione, un guasto al termostato dell’apparecchiatura aveva provocato un aumento della temperatura del bagno di dialisi a livelli tali da costituire un serio pericolo per il paziente e da richiedere un’immediata contromisura. Il sorprendente rimedio messo in atto fu di buttare ghiaccio in grande quantità nella vasca del bagno di dialisi.
Insomma, talora il trattamento si trasformava in un procedimento che oggi verrebbe considerato scellerato dal giudice più benevolo.
Successivamente con l’adozione della dialisi peritoneale intermittente come possibile alternativa al rene artificiale e la disponibilità di apparecchiature più affidabili e di filtri monouso, la gestione della dialisi per i pazienti affetti da insufficienza renale acuta divenne molto più sicura e passò definitivamente nelle mani dei nefrologi.
Ma a questo punto restava irrealizzato il sogno di riuscire a sostituire per lunghi periodi la funzione renale irrimediabilmente compromessa da malattie croniche.

Tempo fa, sulla rivista specialistica Dialysis & Transplantation, Alex Rosenblum ha scritto: “As nephrology professionals in the speciality of dialysis, we plaied a unique part in medical history”.
Infatti, nel 1960 a Seattle erano successe alcune cose piuttosto interessanti. Quinton e Scribner (soltanto quest'ultimo era un medico) idearono uno shunt artero-venoso esterno, in teflon e silastic, che permetteva un accesso vascolare agevole e ripetuto nel tempo e quindi un trattamento di lunga durata col rene artificiale.
L’idea iniziale di Scribner era di mettere a punto un trattamento analogo a quello dell’insufficienza renale acuta, soltanto più soft. Per questo tipo di terapia egli modificò un tipo di dializzatore a flussi paralleli di limitata capienza, che non necessitava di un preriempimento con sangue di donatore. Esso prendeva il nome da Kiil, il suo inventore, (3) che era di nazionalità norvegese. Ma a parte il nome, talora, in seguito, curiosamente storpiato in Kill sugli involucri dei prodotti merceologici di consumo (un lapsus freudiano?), poco o nulla si sa di questo benemerito personaggio. Nel 1961 Scribner, adottando lo shunt di Quinton e il dializzatore di Kiil, tentò con successo il trattamento a lungo termine dell’insufficienza renale cronica. Il primo paziente ebbe vita lunga e la sua fotografia comparve per anni su tutti i libri che trattavano di dialisi.

Se l'affermarsi dell'emodialisi con i reni artificiali che si rifacevano al modello di Kolff fu tormentato, il trattamento con i reni a piastra tipo Kiil si configurò subito come l'autentico miracolo di una ancor giovane disciplina: la tecnologia medica moderna. Fu allora possibile osservare persone con la mente obnubilata dall'intossicazione uremica, squassate da vomito incoercibile e da convulsioni, con croste brune sulle labbra e ‘brina di urea’ sulla cute del viso, riacquistare di giorno in giorno, addirittura di ora in ora, lucidità, vigore, appetito e voglia di vivere. In una parola, e mi sia concesso per una volta di indulgere alla retorica, ‘risuscitare’.
Ma le regole e le linee di condotta terapeutiche con questi nuovi strumenti erano tutte da scoprire e da definire. Ed è a questo punto che appaiono i bricoleurs cui facevo cenno all'inizio, cioè quei medici che, a quell'epoca, conducevano materialmente il trattamento dialitico. Ed ogni applicazione era una scommessa e una sfida.
Nell’operato dei bricoleurs alla fine degli anni Sessanta, e fino ai primissimi anni Settanta, convergevano una gnósis di pretto stampo utilitaristico, una téchne ancora piuttosto rudimentale ed una praxis sofferta e coinvolgente.

Il trattamento dialitico dei pazienti affetti da insufficienza renale cronica iniziò alle Molinette a dieci anni di distanza dall’esperienza fatta col rene di Dogliotti-Battezzati-Taddei. Non fummo i primi: ci stavano già lavorando a Pisa, a Parma, a Milano e, soprattutto, a Padova. Fu proprio nel Policlinico di questa città che il prof. Vercellone propose di mandarmi per imparare la tecnica presso l’equipe diretta dal prof. Pietro Confortini. Era il settembre del 1966 e mi fermai per un mese.
Di quel periodo conservo un ricordo bellissimo. Anzitutto Padova era una città incantevole, allora forse ancora più di adesso. Inoltre le persone che ebbi modo di frequentare, dal capo ai suoi assistenti, alle infermiere e ai pazienti stessi, mi accolsero con grande cordialità e si dimostrarono sempre molto disponibili e amichevoli. Infatti i rapporti perdurarono a lungo anche in seguito.
Com’è facile immaginare rientrai alle Molinette pieno di entusiasmo e ansioso di cominciare a mettere in pratica ciò che avevo imparato. L’impianto era pronto, le apparecchiature installate, le prove in vitro eseguite, ma l’inizio di questa nuova avventura fu ripetutamente rimandato. Intuivo che questi rinvii non avvenivano per motivi organizzativi e mi ci rodevo il fegato, ma non ero nella posizione di far valere le mie ragioni. Il risultato fu che, pochi giorni prima del sospirato avvio, ci accorgemmo che i tubi in PVC dell’impianto di distribuzione del bagno di dialisi, erano stati invasi da muffe nerastre. Vani i tentativi di sterilizzare l’impianto con formalina e altri agenti disinfettanti. Si dovette procedere alla sostituzione di tutto l’impianto.
Ma finalmente, all’inizio del mese di maggio 1967, venne praticata la prima dialisi. Erano passati sette mesi.

In occasione del XXX Corso di Aggiornamento in Nefrologia e Metodiche Dialitiche, tenutosi a Milano nel dicembre 1998, la ditta Hospal-Cobe ha avuto la brillante idea di allestire una videocassetta con due registrazioni. La prima (ripresentata a Torino in occasione del XXVI Convegno Interregionale - settembre 2008) è intitolata “La Dialisi extracorporea” ed è una registrazione amatoriale girata nel 1968 presso il Policlinico di Padova e commentata da Antonio Bonadonna, uno degli amici padovani, anche lui, quindi, bricoleur della primissima ora. La seconda registrazione (“Verso l'organo artificiale”) è invece una quadro fedele di quello che la tecnologia è riuscita a realizzare nei trent'anni intercorsi tra l'una e l'altra registrazione, e le mete che attualmente si prefigge. In queste registrazioni due cose mi hanno colpito in modo particolare:

a) l’età dei pazienti, tutti giovani o giovanissimi nel primo video, prevalentemente anziani nel secondo, e
b) la scenografia, naive nel primo, quasi si trattasse di un allegro gioco fatto in casa tra amici, impersonale e raggelante nel secondo, nonostante l'efficienza di una struttura perfettamente funzionante.

La sparuta pattuglia dei bricoleurs medici, infermieri e tecnici – ha vissuto l’età dell’oro della dialisi, quando il malato – il nefropatico affetto da insufficienza renale cronica – conservava le sue caratteristiche di individuo e non si era ancora trasformato in categoria. Il video di Bonadonna mette in evidenza come la dialisi fosse allora un vero e proprio prodotto di artigianato. I bricoleurs erano niente di più che artigiani ed ogni dialisi condotta a termine, pertanto, era un ‘pezzo unico’, più o meno riuscito, ma comunque fuori serie.
Talora poteva capitare che questa disciplina ruspante si vergognasse di se stessa e si sforzasse di indossare panni più preziosi adottando, talora a sproposito, concetti e termini presi in prestito dalla tecnologia e dalla scienza, quella seria.
Ricordo una spedizione a sfondo culturale che Beppe Piccoli ed io compimmo presso il Padiglione Croff dell’Ospedale Maggiore di Milano dove l’urologo Mariano Della Grazia aveva allestito il primo nucleo del servizio dialisi milanese. Della Grazia ci accolse con molta cordialità sprizzando milanesità da tutti i pori.
Come succedeva per tutti i servizi dialisi che in quel decennio andavano costituendosi, l’attività si svolgeva in locali di fortuna, ricavati faticosamente dove si poteva. Quello di Della Grazia era sistemato in una stanza angusta del seminterrato che a stento riusciva a contenere due letti bilancia, due dializzatori tipo Kiil e la vasca di distribuzione del bagno di dialisi. Gli impianti allora erano centralizzati e comprendevano una vasca per la preparazione manuale della soluzione dializzante la quale veniva trasferita in una seconda vasca e da questa distribuita ai vari apparecchi.
La domanda che Piccoli pose a questo punto era quindi ovvia:
“Dove hai sistemato la vasca di preparazione?”
“Al piano superiore. Venite con me, vi faccio vedere!”
Senza por tempo in mezzo, Della Grazia ci condusse per una scala interna al piano superiore dove, in un analogo locale, era sistemata la vasca in questione.
A questo punto si rese necessaria un’ulteriore domanda:
“Ma come provvedi al trasferimento nella vasca di distribuzione?”
L’improvviso luccichio che comparve negli occhi del nostro interlocutore dimostrò che la domanda era non soltanto attesa, ma auspicata. Infatti la risposta giunse immediata:
“Ovvio! Con un sistema piezometrico!”.
Lo sconcerto delle nostre espressioni non ebbe bisogno di spiegazioni. Senza profferir parola Della Grazia si avvicinò ad una catenella che pendeva accostata alla parete. La tirò e innescò un meccanismo di sifonaggio che provocò, per caduta, il trasferimento della soluzione nella vasca sottostante. Esattamente come succedeva nei vecchi sciacquoni dei gabinetti.
Inutile dire che esprimemmo con acconce parole tutta la nostra ammirazione per la genialità della soluzione adottata e i nostri complimenti furono apprezzati con signorile nonchalance.

Questi erano il clima e lo scenario della realtà dialitica italiana a metà degli anni Sessanta.
Esattamente in quegli anni la Nomenclatura non esitò ad impossessarsi di questo ghiotto boccone per farne lo strumento di legittimazione di una disciplina, la Nefrologia, che era allora piuttosto languida come risultati pratici raggiunti in termini di efficacia terapeutica. I nefrologi di una certa età ricorderanno certamente il favore che hanno incontrato, faute di mieux, farmaci tanto diffusi quanto inefficaci come i mitici Ipoazotal, Nefronan e Liorene. Non mi si accusi di disfattismo: è il professor Luigi Minetti, della cui autorevolezza in campo nefrologico non è lecito dubitare, che afferma:

“C'è da dire che l'applicazione del rene artificiale al paziente uremico segna la nascita della nefrologia, ma annuncia anche una nuova era in medicina: l'era degli organi interni artificiali.”
(4)

Da questo punto di vista le cose non sono cambiate molto in quarant'anni. Il fatto che l'incidenza annuale dei nuovi pazienti messi in dialisi continui ad aumentare può avere molte spiegazioni. Due fatti però non si possono negare:

a) mancano tuttora cure efficaci per evitare che la maggior parte dei nefropatici cronici arrivi alla dialisi;
b) il trapianto renale non è attualmente in grado di svuotare il serbatoio di pazienti in trattamento dialitico.

I bricoleurs non erano considerati medici a tutti gli effetti, ma piuttosto dei ‘tubisti’ industriosi. Poca fu la gloria che raccolsero, certamente sproporzionata al lavoro che profusero e allo stress che da questo lavoro ricavarono. Altri erano quelli che andavano a discettare ai Congressi raccogliendo applausi e onori.
Si era, in quegli anni di cui stiamo parlando, in pieno feudalesimo universitario presessantottino e i mandarini dell’Accademia, detentori ufficiali della gnósis, videro nella dialisi soprattutto un nuovo strumento di potere, prima ancora che una nuova fonte di guadagno.
Ma forse non è neanche questa la ragione della sconfitta dei bricoleurs: essa va ricercata altrove. Il trattamento dei nefropatici cronici, ai primordi della dialisi, fu in realtà un enorme scandalo. Quante volte abbiamo sentito dire o, più spesso ancora, abbiamo detto noi stessi che per la prima volta un organo artificiale era in grado di sostituire, per un periodo indefinito di tempo, la funzione di un organo vitale? Questo vuol dire che noi bricoleurs assicuravamo la vita (Sissignori la vita!) con i nostri strumenti rudimentali, non con le pozioni e gli elettuari della medicina chimica, non con la perizia chirurgica della medicina tecnica e neppure con i rituali più o meno fastosi della medicina magico-religiosa.
Uno scandalo siffatto non era tollerabile e non venne tollerato. A correggere questo stato di cose pensò subito l’establishment. Anzitutto fu necessario nobilitare l’artigianato e promuoverlo a tecnologia. Ma se l’artigianato è illuminato dalla fantasia creativa e gioiosa, la tecnologia non può essere illuminata che dalla scienza algida e vincolante. Ed ecco allora, per dare una legittimazione scientifica, avanzare l’ipotesi delle ‘medie molecole’, la teoria del ‘metro quadro-ora’, la ‘biocompatibilità’ e, ultimo mito, il ‘Kt/V’.

…la tecnologia compenetra la scienza tanto quanto la scienza la tecnologia. In breve tra le due sussiste un reciproco rapporto di feed-back che le tiene in movimento; ciascuna ha bisogno dell’altra e stimola l’altra, e allo stato attuale delle cose esse o possono soltanto vivere insieme oppure debbono morire insieme.
(5)

Peccato che in questo processo di interazione che, nel campo della dialisi, ha consentito di raggiungere tanti risultati positivi, il paziente venga posto completamente ai margini, come un accessorio ingombrante di cui però non si può fare a meno.

Guardo e riguardo il video di Bonadonna e mi rendo conto che in rare occasioni, nella storia della Medicina, si è realizzata tra operatori sanitari e pazienti una ‘simpatia’ così coinvolgente come nella storia iniziale della dialisi. Intendo naturalmente il termine ‘simpatia’ nel significato di

“immaginazione partecipante capace di farci sentire e vivere come nostra l'esperienza di un altro.”
(6)

L'esperienza dei bricoleurs ha avuto però vita breve e loro stessi hanno contribuito a farla morire.
Quella dei bricoleurs non è stata una razza longeva. Esposti all'azione di inattesi sopraggiunti agenti morbosi, alla stregua degli amerindios contagiati dai conquistadores, molti sono caduti sul campo. E' cosa nota la devastante epidemia di epatite virale tra gli operatori sanitari delle sale dialisi negli anni '70. Di quelli che sono rimasti alcuni sopravvivono avendo superato un processo di omologazione, come i ‘figli dei fiori’ diventati impiegati di banca. Gli altri furono presto dimenticati.
Quando inevitabilmente sopraggiunse l’impulso determinante dell'industria, il successo del trattamento dialitico dei cronici fu travolgente. Ma la forza motrice dell'industria (c'è bisogno di dirlo?) non è la filantropia ippocratica ma il danaro.
Noi bricoleurs abbiamo desiderato e sognato alla grande. Inconsapevolmente e prima della grande festa libertaria del Sessantotto, abbiamo fatto nostro lo slogan “Prendete i vostri sogni per realtà”. E’ stata l’epoca del sogno ingenuo. Dai nostri occhi la dialisi veniva vista come una specie di zona di parcheggio serena, talora addirittura gioiosa, frequentata da persone che dovevano subire il peso e la remora di qualche inconveniente ma che per il resto potevano condurre una vita del tutto normale, con il supporto adeguato di una tecnologia innovativa. Le ore improduttive della seduta dialitica potevano essere utilmente impegnate nella lettura, nello studio, nella conversazione o nell’ascolto di musica. Crampi, ipotensioni ed altri inconvenienti intradialitici sembravano destinati a scomparire col perfezionarsi delle metodiche e, per le anomalie non correggibili con il trattamento dialitico, si stava cercando con successo una terapia farmacologica.
Il trattamento poteva andare avanti per tempi indeterminati, ma il flusso di pazienti immessi in dialisi sarebbe diminuito col tempo, per la messa a punto di misure preventive efficaci e di terapie innovative per guarire le nefropatie mediche. La dialisi non sarebbe scomparsa del tutto perché per le malformazioni ereditarie non era allora ipotizzabile una prevenzione (adesso il discorso si pone in termini diversi) ed, inevitabilmente, ci sarebbe stata una minoranza che non avrebbe seguito i principi e le prescrizioni di una politica sanitaria lungimirante. Ma il trapianto renale avrebbe assicurato il regolare svuotamento di questo serbatoio di ammalati e la dialisi, come esclusiva soluzione terapeutica, sarebbe rimasto limitato a pochi, pochissimi malati.
La realtà è stata, purtroppo, ben diversa. Le grandi industrie biomedicali e farmaceutiche si sono rese conto che curare è meglio che guarire e la dialisi, superato lo slancio iniziale, ha continuato a procedere perfezionando lo stato dell’arte. L’ampliamento delle indicazioni e dei limiti di età e la riduzione della mortalità in molte malattie, come cardiopatie e diabete, oggi consentono ad un maggior numero di pazienti di raggiungere l’uremia terminale ma, d’altro lato, oggi si dializza una popolazione sempre più vecchia, sempre più fragile, sempre più a rischio. A causa di patologie vascolari, le amputazioni degli arti sono sempre più frequenti. Negli Stati Uniti circola la macabra battuta che nei centri dialisi ci sono più teste che gambe. E quest’esercito di zombi, com’è stato definito senza allontanarsi troppo dalla realtà, è destinato ad ingrossarsi. La scelta moralmente nobile del pieno trattamento rischia di trasformarsi in una beffa e, a volte, si ha l’ingiusta impressione che dialisi e trapianto renale si trasformino in tecniche crudeli per uccidere malati terminali lentamente e in modo macabro.


Gigi Cavalli


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(1) Peitzman SJ: Origin and Early Reception of Clinical Dialysis. Am J Nephrol 1997; 17:299-303.
(2) Welt LG, Peters JP: Acute renal failure: Lower nephron nephrosis. Yale J Biol Med 1951; 24: 220-230.
(3)  Kiil F, Amundsen B: Development of a parallel flow artificial kidney in plastics. Acta Chir Scand (Suppl) 253: 142, 1960.
(4) “Viaggio all'interno dell'uremia” pag.11. Wichtig Editore. Milano 1991. Il corsivo è mio.
(5) Jonas H.: “Tecnica, medicina ed etica” pag. 17. Giulio Einaudi Editore. Torino 1997.
(6) Scarpelli U.: op.cit. pag.47.


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