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Il 18 di Biochimica

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



In cui si narra di come scippai al professore cattivo un “18” destinato a divenire leggendario



Università di Torino, Febbraio 1965

Nell’ultima sessione dell’anno accademico 1963-64 (cioè a dire nel Febbraio del 1965) sostenni – al termine del secondo anno - uno dei più difficili esami dell’intiero Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università di Torino: quello di B*.
Si trattava, a quei tempi, di un esame-sbarramento, senza aver superato il quale non si poteva accedere agli esami del terzo anno: in definitiva, uno scoglio durissimo, sia per la difficoltà intrinseca della materia, sia perché il cattedratico che teneva il corso in questione, il professor Veloci, era un personaggio decisamente peculiare.
Non solo era severissimo agli esami, nel corso dei quali era capace di falcidiare con domande impossibili intiere schiere di studenti nell’arco di mezz’oretta – ma in questo non era il solo - ma era inoltre rinomato anche e soprattutto per una serie di sgradevoli atteggiamenti di tipo scopertamente vessatorio, che avevano come risultato quello di accrescere ulteriormente la difficoltà dell’esame e la possibilità, da parte di noi studenti, di prepararlo correttamente.
Tanto per fare un piccolo esempio tra i molti altri: pur avendo a disposizione, nel suo istituto, una grande aula da 200 posti (noi eravamo, se ben ricordo, poco più di 120), egli si ostinava a tenere le proprie lezioni – la continuativa presenza alle quali era un “sine qua non” assoluto per poter essere ammessi all’esame – in una piccola auletta dove potevano pigiarsi a malapena una ventina di tapini seduti su delle sedie ed altrettanti in piedi, più quelli che restavano fuori dalla porta a prendere appunti tramite un ridicolo passa-parola.
Conosco questi fatti in modo particolareggiato e per esperienza personale, poiché ero proprio io, allora, il rappresentante “ufficiale” degli studenti del secondo anno di corso, eletto a tale “carica” con le elezioni universitarie, e toccava quindi a me e non ad altri improbabili kamikaze il prendere contatti – potete immaginare con quali e quante difficoltà – con il cattedratico, al fine di sottoporgli le richieste degli studenti (ad esempio quella di utilizzare per le lezioni l’aula più grande o almeno di dotare quella più piccola di un qualche ripiano che facilitasse la scrittura degli appunti) o anche al solo scopo di implorare pietà preventiva prima delle varie sessioni di esame.
Ricordo che – pressato da colleghi felici di non essere loro a doverlo fare – mi toccò recarmi da lui proprio per questo motivo: egli mi accolse con apparente estrema cortesia, mi fece accomodare nel suo studio e, dopo avermi ascoltato per meno di mezzo minuto, mi interruppe con un gesto della mano, dicendo:
“Ma insomma.., mi dica che cosa dicono di me i suoi colleghi!
“Professore, allora…, ecco…”
“Vada avanti!”
“Ecco.., dicono che lei è eccessivamente severo…”
“Ah.., molto, molto bene! E che cosa farei mai, oltre a bocciare chi se lo merita, per essermi guadagnato una fama del genere?”
“Beh.., alcuni.. talvolta.., sostengono che lei fa delle domande impossibili, non comprese nel programma..”
“Ad esempio? Avanti, perbacco, non abbia paura! Sputi l’osso!”
“Non so.., beh.., ad esempio…, lo spettro di assorbimento dell’emoglobina..”
A questo punto lui proruppe in una fragorosa risata, si voltò verso uno dei suoi assistenti che già cominciava a godere di una fama simile alla sua, la dottoressa Parlante, e le disse qualcosa come:
“Ma pensi! Ma pensi che cosa si inventano! Lo spettro di assorbimento dell’emoglobina, dico! Una cosa che neppure io ricordo a memoria!”, e  subito dopo, tornando a rivolgersi a me, mi indicò la porta, concludendo:
“Vada pure tranquillo, e rassicuri i suoi colleghi, io non ho mai fatto e non farò mai domande insensate come questa. E dica anche loro che non è bello calunniare la gente in questo modo…!”
Pochi giorni dopo, la mattina in cui iniziavano gli esami, io ero in prima fila ad assistere, sereno e tranquillo, poiché avrei sostenuto la prova nella sessione successiva.
Lui entrò – rabbuiato e senza salutare nessuno, come d’abitudine – si sedette dietro alla scrivania, fece accomodare il primo candidato davanti a lui, ed io – incredulo, incapace di credere alle mie orecchie – lo sentii dire:
“Allora, allora, vediamo.. Mi parli dello spettro di assorbimento dell’emoglobina”.
Lo studente tacque e dopo meno di un minuto se ne dovette andare bocciato e scornato, poiché non gli fu concessa una seconda domanda.
Nel corso dei lunghi mesi successivi a questo episodio, durante i quali preparai l’esame, ebbi alcune volte occasione di parlare con uno studente di qualche anno più anziano di me, il dottor Barcone, che frequentavo poiché suo padre (medico anch’egli) era collega e molto amico del mio: lui era un po’ il mio “mentore”, ed io davo molta importanza ai suoi consigli, che si erano rivelati, sino ad allora, utilissimi. A proposito dell’esame di B*, lui mi disse:
“Guarda, Giuliano, l’esame va preparato bene, perché altrimenti da lì non si passa. Quindi mettiti a studiare seriamente. Però…, allo stesso tempo, non romperti la testa oltre un certo limite, perché, visto il tipo che è il Veloci, le probabilità di passare non aumentano proporzionalmente all’entità dell’impegno che ci metti ma, oltre un certo limite, rimangono sempre le stesse…”.
E così io feci: studiai moltissimo, ma – diciamo - senza impazzire e rimanere sveglio sino alle ore piccole.
Il giorno in cui sostenni l’esame c’erano ad assistere, nella famosa auletta, una trentina di colleghi. La cosa cominciò più che bene, e risposi correttamente alla prima domanda.
La seconda domanda consistette nello scrivere, sulla grande lavagna che si trovava di fianco alla cattedra, la formula dell’aldosterone: ci misi un po’ di tempo, dato che si tratta di una formula un tantino complessa, ma dopo alcune incertezze, cancellature e correzioni, riuscii nell’intento.
Al terzo giro, mi sentii chiedere di disegnare sulla lavagna la formula dell’emoglobina: e la cosa mi gettò nel panico più completo, dato che si trattava di una formula di complessità e di dimensioni estreme, al punto di non poter essere contenuta nella sia pur grande lavagna, a meno di non usare caratteri minuscoli. Comunque, ci provai: e dopo molte incertezze, procedendo nello scrivere tenendo conto delle dimensioni della lavagna e di quelle della formula che avevo in mente, portai a termine il tutto.
Lui guardò a lungo la mia opera, le sue cinquanta diramazioni che si piegavano verso l’alto o verso il basso per non uscire dal riquadro nero della lavagna, ed alla fine sibilò:
“Manca un idrossile”
Sono assolutamente certo che, mentre pronunciava quelle parole, la sua intenzione fosse quella di bocciarmi, ed ebbi il tempo di pensare che la mia bocciatura non sarebbe stata più strana o inaspettata, o più inconsueta di tante altre…
Ma, a questo punto, egli prese il mio libretto, che non aveva ancora esaminato, lo aprì, e si trovò davanti una sfilza di trenta e di trenta e lode. Vidi che rimaneva per un attimo incerto e perplesso. Poi, con un gesto della mano, mi indicò la porta.
Ora, dovete sapere che era noto a tutti che, quando il Veloci bocciava, dava la notizia al malcapitato sul momento, di fronte a tutti i suoi colleghi; quando invece promuoveva, aveva l’abitudine di far uscire lo studente dall’aula, discutere con gli altri commissari e quindi richiamare lo studente per comunicargli il punteggio a lui assegnato.
Essendo al corrente di tutto ciò, io uscii dall’aula tirando un grosso sospiro di sollievo e pensando:
“Beh, è andata. In qualche modo ho passato l’esame. Magari con un voto molto basso, ma l’ho passato…”
In realtà il Veloci, dopo aver visto il mio libretto, aveva fatto un ragionamento tipico del personaggio: io lo passo con il voto minimo e lui, con il libretto che si ritrova, lo rifiuta e si ripresenta alla prossima sessione per ottenere un voto migliore…
Ma il Veloci non aveva tenuto conto del fatto che ormai tutti – e quindi anch’io – avevamo assistito ad alcune tragedie che si erano fissate per sempre nella nostra memoria: ad esempio, tapini che avevano, per lo stesso motivo, rifiutato un ventisette, o addirittura un ventotto, e che si erano poi visti bocciare senza pietà al successivo tentativo.
Per cui, quando fui richiamato in aula e lui mi disse testualmente (la sua voce e le sue parole sono ormai fissate per sempre nella mia memoria):
“Lei è stato approvato con diciotto”,
io sorrisi, ringraziai, e me lo presi.
“Come? Come? Lei non rifiuta il diciotto?”
“No professore, non lo rifiuto”
Lo vidi divenire lentamente paonazzo in viso, con le vene che gli si inturgidivano sulla fronte, mentre ribatteva sibilando:
“Ma allora.. allora io la boccio!”
Ancora oggi, proprio non so dove trovai – forse agii automaticamente, in una specie di trance - il coraggio di tendere il braccio ed il dito indice della mano sinistra verso il gruppo dei miei colleghi esterrefatti, e di dire:
“Professore, lì c’è almeno una trentina di persone che ha sentito che lei mi ha promosso con diciotto…”
Il diciotto venne pertanto scritto – ma che dico… scritto? Letteralmente scarabocchiato con rabbia evidente sul mio libretto, che io presi al volo, poiché venne lanciato verso di me a volo d’angelo attraverso alla stanza.
Questa, in definitiva, è la veritiera e leggendaria storia del mio famoso diciotto di B*, quello che, quattro anni dopo, mi costò, all’esame di Laurea, la lode: credo infatti che siano proprio pochissimi i medici laureatisi come me, con “centodieci e dignità di stampa”, ma senza la lode in mezzo.
Nonostante questo piccolo inconveniente, tuttavia, questo famoso diciotto fu all’origine, in seguito, di una serie di episodi curiosi che mi procurarono momenti di buon umore e di soddisfazione.
Tanto per cominciare, subito dopo l’esame, mi recai in un bar vicino per telefonare a casa e comunicare l’esito ai miei genitori: e fui accompagnato dalla mia amica Maria Grazia, destinata a divenire cattedratica, che cercava di consolarmi, dato che, a suo parere, io dovevo essere per forza disperato. E alla mia affermazione:
“Ma Grazia, è inutile che tu mi consoli. Io sono contento come una Pasqua!” , lei rispose accorata:
“No, no! Tu ti fai forza e fingi, ma io lo so che hai la morte nel cuore!”
In secondo luogo, pochi mesi dopo, stravinsi le elezioni politiche universitarie con una schiacciante percentuale di preferenze personali: l’episodio in questione mi aveva infatti reso noto e popolare non solo tra gli studenti avvezzi ad ottenere alte votazioni, ma anche tra i reietti, i fuori corso, i goliardi, quelli di centro, di destra, di sinistra, iscritti o non iscritti a partiti, impegnati, qualunquisti o apolitici che fossero.
Infine, poco prima della laurea, nel 1968, mentre ero in attesa di sostenere uno degli ultimi esami, vidi un ragazzo assai più giovane di me – evidentemente uno studente del primo o del secondo anno – entrare con aria incerta nell’aula, guardarsi intorno, puntarmi, ed infine infilarsi nella fila di banchi in cui ero seduto, passando poi di sedia in sedia sino ad arrivarmi proprio vicino.
Un po’ insospettito da questo suo strano atteggiamento, lo vidi rivolgersi proprio a me e lo sentii dire, timidamente:
“Mi scusi… lei è Giachino?”
Alla mia risposta affermativa lui allungò una mano e mi palpò.
Io mi ritrassi protestando:
“Ma che diavolo fa? Mi palpa?”
E lui:
“No, si, si, no! Mi scusi! Ma sa, domani io devo sostenere l’esame di B*, ed ancora oggi si sente narrare del modo in cui lei, quattro anni fa, riuscì a scippare un incredibile diciotto al terribile professor Veloci.. Magari così mi passa un po’ della sua fortuna..!”

Giuliano Giachino


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