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Il clima in Clinica Medica negli anni '60-'70, incontri col Direttore e concreta benevolenza della Suora Caposala

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11

"1960_70 - Il clima in Clinica Medica, incontri col Direttore e concreta benevolenza della Suora Caposala"



Nel 1958, trasferendosi dalla Patologia Medica con gran parte dei suoi collaboratori, il prof. G.C. Dogliotti aveva assunto la direzione della Clinica Medica, succedendo al prof. Pio Bastai, di cui era stato allievo agli esordi della sua carriera, prima Torino e poi a Firenze.
Nel sottopiano del nuovo Istituto, governato dalla severa suor G., avevano sede gli Ambulatori ed un Reparto Radiologico. Al piano terreno erano sistemati la Biblioteca, numerosi Laboratori ed alcuni Studi per gli Aiuti. La Segreteria e lo Studio del Direttore erano situati al “piano nobile”, il primo.

I pazienti ricoverati erano ospitati in due corsie, in cameroni a sei letti, gli uomini al primo piano, affidato alla conduzione di suor A., le donne al secondo, affidato a suor E..
La Nefrologia poteva disporre di pochi letti, in entrambi i piani, contendendoli, con altre specialità minori, a quelle più quotate e tradizionali, quali l’Ematologia, l’Endocrinologia, la Cardiologia, la Pneumologia, la Gastroenterologia, etc. Appena trasferito in Clinica Medica, il prof. G.C. Dogliotti si rese conto che lo spazio non era sufficiente ad ospitare adeguatamente tutti i collaboratori che avevano deciso di seguirlo, in un’epoca in cui la medicina stava così velocemente evolvendosi, con la nascita di specializzazioni nuove e sempre più numerose. Per ottenere nuovo spazio si adoperò tenacemente per la sopraelevazione di un piano dell’Istituto, operazione che vedrà realizzata nel 1961. La solenne inaugurazione venne celebrata con l’apposizione di una lapide in marmo con una scritta celebrativa opera del latinista Oreste Badellino, famoso suo conterraneo e fraterno amico, che per anni accolse i visitatori che entravano nel reparto.

In questa nuova moderna corsia, che accoglieva uomini e donne, trovarono all’inizio ospitalità letti di diverse specialità, che poi dovettero lasciare il posto alla Cardiologia ed alla Nefrologia, che si espansero con servizi all’avanguardia nella moderna medicina, l’Unità Coronarica, l’Emodinamica e le Sale Dialisi. Questi reparti specialistici, divenuti fiori all’occhiello della Clinica e dell’Ospedale, continueranno ad espandersi inarrestabilmente sino a rendere necessaria un’ulteriore sopraelevazione del padiglione di un altro piano, il quarto. In quest’ultima sede troverà spazio, tra il 1975 ed il 1982, prima la Dialisi ed il Laboratorio e poi la Corsia Nefrologica, occupandola quasi per intero, lasciando il terzo piano alla Cardiologia.

In Clinica Medica due suore godevano in quell’epoca di particolare autorità nell’Istituto, suor G. e suor E..
Suor G., responsabile sia degli Ambulatori che dei Servizi Radiologici nel sottopiano, aveva anche un incarico prestigioso, quello di tesoriera incaricata della riscossione per tutte le attività a pagamento effettuate nell’Istituto. Oltre alle prestazioni ambulatoriali, introiti cospicui derivavano dai ricoveri di pazienti nell’ala estrema della clinica, 41 letti sui tre piani, verso il lato prospiciente C.so Bramante, dove le camere di degenza erano riservate a pazienti paganti, chiamati pensionanti. Il trattamento di questi pazienti avrebbe dovuto essere equivalente a quello offerto dalle cliniche private e, per consuetudine, gli introiti incamerati dal Direttore della Clinica, che ne elargiva, a sua discrezione, una quota ai suoi collaboratori più stretti. Proprio per la gestione di tali introiti scoppiò, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, un grosso scandalo sui giornali che diede avvio ad un processo che descrivo in un altro racconto di questa sezione.

Con la sopraelevazione del terzo piano, la nuova moderna corsia venne affidata a suor E., caposala già del II piano, che si era precedentemente conquistata la fiducia del Direttore, coordinando l’attività degli Ambulatori dell’Istituto di Patologia Medica. La nuova corsia del terzo piano aveva il privilegio, per l’epoca, di essere costruita non più con cameroni, ma con moderne camerette da tre letti ciascuna. All’inizio, quattro di queste camere erano state finalmente affidate in esclusiva ai Nefrologi, due per i pazienti uomini e due per le pazienti donne. L’ufficio della caposala era adiacente alla medicheria, in posizione strategica per il controllo, al centro del reparto. Per poter meglio sovrintendere i movimenti in corsia, rimanendo seduta alla sua scrivania, la suora aveva fatto posizionare uno specchio inclinato allo stipite della porta dell’ufficio, attraverso il quale poteva tenere sotto controllo tutto il personale.
Tradizione di quell’epoca era che, alle 17, uno scampanellio segnalasse l’ora della preghiera, che la suora declamava inginocchiandosi nel corridoio, e che tutta la corsia ascoltava in devoto raccoglimento.

Quando fui assunto, nel 1966, il Laboratorio che mi accolse era uno stanzino posto ad un’estremità del reparto, di fronte alla camera del medico di guardia interdivisionale, in un’area di servizi condivisa con la Cardiologia e la Pneumologia, che poi verrà lentamente colonizzata dalla Dialisi.
La corsia di suor E. aveva il privilegio di essere considerato reparto didattico e di essere frequentata dalle giovani allieve infermiere della scuola convitto interna. Una delle preoccupazioni della suora era che nessuno, tra i giovani medici ed allievi, si prendesse con loro troppa confidenza, non solo per il possibile attentato alla loro virtù, ma anche per l’alterazione di quel consolidato rispetto per la gerarchia al quale era stata educata e che si sentiva in dovere di difendere strenuamente. Medici ed infermiere non dovevano trovare occasione di promiscuità extraprofessionale.

Io non appartenevo a nessuna delle due categorie, ma essendo oltre che un tecnico anche un giovane studente universitario, compresi presto di essere stato da lei equiparato agli allievi di medicina, e mi adeguai di buon grado a questa sua catalogazione.
Essendo un ragazzino molto timido ed insicuro, anch’io educato al rispetto delle gerarchie, non avevo faticato molto ad adeguarmi al comportamento gradito alla suora. Anche se relegato ai margini della vita assistenziale del reparto, nelle occasioni d'incontro col resto del personale avevo adottato la regola di dare del lei alle infermiere ed alle giovani allieve, protocollo a volte disatteso da parte di qualche giovane studente di medicina che frequentava il reparto, e persino da qualche più anziano assistente. Questo mio comportamento, molto apprezzato dalla suora, confliggeva parecchio col clima di cameratismo anticonvenzionale che stava nascendo tra i giovani in quell’epoca, in cui s'iniziava a respirare l’atmosfera della rivoluzione studentesca sessantottina.
L’attenzione delle giovani infermiere era peraltro attratta da altri ben più interessanti protagonisti, frequentatori della Clinica. In quel periodo alcuni giovani medici, anche tra gli allievi nefrologi, esercitavano notevole fascino su molte di loro. Un giovane, in particolare, il cui nome per discrezione non cito, rifulgeva particolarmente per attrattiva, a volte subita persino da alcune giovani pazienti ricoverate, con estremo sgomento della suora, che si vedeva obbligata ad un continuo stato di allarme ed a mantenere sempre alto il livello di vigilanza. Tale allievo, docente molto apprezzato nella scuola infermieristica, per anni, col suo fascino, calamiterà verso la Nefrologia un flusso di aspiranti frequentatrici che ha consentito di superare l’iniziale disagio all’arruolamento che l’impegnativa attività dialitica opponeva.

Ebbi modo un giorno d’estate del 1968 di costatare quanto fosse stato apprezzato dalla Suora il mio comportamento rispettoso e riservato, con una concreta ed inattesa manifestazione di benevolenza.
Nel periodo estivo riuscivo a prendermi occasionalmente qualche giorno di ferie, andando al mare, sulla costa ligure, con la mia piccola Fiat 500 di allora. Al ritorno da una di queste gite, ebbi un incidente in autostrada, tamponando un'altra vettura. Non mi procurai fortunatamente alcun danno fisico, ma la mia vetturetta venne gravemente danneggiata, con accartocciamento del muso e danni considerevoli alla trazione, tali da richiedere l’intervento di un carro attrezzi per il suo recupero e l’onerosa riparazione in un’officina del luogo, con mio ritorno a casa in autostop.

In laboratorio raccontai la mia disavventura, molto amareggiato per l’entità del danno, che ammontava a quasi un terzo del valore dell’auto nuova. Non ho mai saputo come la notizia fosse giunta alle orecchie della suora, ma due giorni dopo fui convocato a sorpresa nello studio del Direttore, al primo piano, e fatto accomodare nell’ufficio delle due segretarie, che mi guardarono con aria di affettuosa complicità, mentre annunciavano la mia presenza al Professore, per poi introdurmi nel suo, per me, allora leggendario Studio.

Era la prima volta che mi trovavo al cospetto di quello che era una specie di mito ed ero decisamente intimidito, sentendomi in soggezione come Fantozzi di fronte al Megadirettore.
Il prof. G.C. Dogliotti prese una busta dalla sua scrivania e, porgendomela con aria bonaria, mi disse: “La Suora mi ha riferito che lei ha avuto un incidente d’auto, con danni gravi. Non creda che io abbia sul serio prestato fede al fatto che lei stesse venendo al lavoro, come suor E. ha cercato di farmi credere, ma comunque mi hanno segnalato che lei si comporta bene e ho deciso di aiutarla, contribuendo alle spese di riparazione”. Bofonchiando impacciato, ringraziai il Direttore, confermandogli peraltro goffamente che l’incidente era avvenuto di ritorno dal mare e, congedato con un magnanimo sorriso, uscii dal suo studio. Scoprii che nella busta vi era una somma equivalente a quasi due mesi di stipendio, che contribuì in buona parte alla copertura del danno.
Fu quella la prima volta che ebbi occasione di avvicinare il Direttore della Clinica.

Tornai in reparto a ringraziare la suora che, burberamente, mi congedò con un “e la prossima volta stia più attento quando guida”, suscitando l’invidia di molti, per il privilegio ottenuto e la simpatia così concretamente dimostratami.

Negli anni successivi, quando buona parte del personale religioso venne sostituita da coordinatori laici ed il clima divenne più cordiale e permissivo, ormai abituato alla regola di riserbo inizialmente impostami, mantenni (quasi sempre) lo stesso atteggiamento. Scoprii poi che il mio aggirami nei reparti, riservato e discreto, mi valse il soprannome, tra il personale ed i pazienti della sala dialisi di “il fantasma del laboratorio”. Qualcuno usava anche altri meno lusinghieri appellativi, ma vanità e buon gusto mi suggeriscono di non riportarli.
Se si aggiunge la scarsa dotazione di fascino, simpatia o avvenenza, fornitami da madre natura, a quell’anonimo limbo professionale cui appartenevo, può ben comprendersi delle molte difficoltà e dello scarsissimo successo in quei miei rari maldestri tentativi di approccio di allora con qualcuna delle numerose graziose fanciulle transitate in reparto che, scambiando spesso quell’ormai consolidato comportamento riservato per un atteggiamento di scostante superbia ed alterigia, ben raramente si son guardate dal corrispondere positivamente.
Certo oggi, potendo tornare all’età di allora, non avrei dubbi sul comportamento da tenere, tra quello cordiale, atto ad accattivarmi la simpatia delle giovani allieve che frequentavano il reparto e quello severo, apprezzato dalla suora caposala, optando per il primo, anche a costo di rinunciare al contributo economico procuratomi nell’episodio descritto.

Mi capitò ancora di incontrare il prof. Dogliotti soltanto in una seconda occasione, alla fine del 1972.
Il reparto nefrologico della Clinica, con l’avvio della Dialisi per i pazienti cronici, continuò ad ingrandirsi, e per far fronte alle sempre più onerose esigenze assistenziali occorrevano risorse di cui l’Università non era più in grado di farsi carico. Oltre all’assistenza infermieristica, da sempre pertinenza dell’Azienda Ospedaliera, anche l’organico medico si stava implementando con la strutturazione dei Medici Volontari come Assistenti Ospedalieri. Al prof. Vercellone fu offerto di diventare alle Molinette il Primario di una Divisione Nefrologica Ospedaliera, pur rimanendo nella stessa sede, incarico che accettò nel 1972. In questa nuova realtà rimaneva l’anomalia del piccolo laboratorio, ancora in carico alla Clinica Universitaria. Il mio stipendio e quello di due mie colleghe che nel frattempo si erano aggiunte, erano attinti da un fondo ottenuto dalla generosa donazione di un facoltoso mecenate, che aveva lasciato, alla sua morte, un cospicuo patrimonio alla Clinica Medica, affidato all’amministrazione del suo Direttore, l’“Eredità Marangoni”, impiegato per finanziare molteplici attività di gestione e ricerca, di acquisto di apparecchiature e di ammodernamento, anche edilizio, della Clinica.

Dopo il passaggio del Reparto dalla direzione Universitaria a quella Ospedaliera, venni convocato dal prof. Dogliotti nel suo studio, per ricevere la comunicazione che sarebbe stato opportuno che anche il personale del laboratorio passasse alle dipendenze ospedaliere, rendendo disponibili le risorse dell’“Eredità Marangoni” per finanziare altre attività più utili all’Università.
Io ero alquanto perplesso all’idea di abbandonare il posto di ruolo in Università, così faticosamente ottenuto, per ricominciare in un’altra amministrazione. La qualifica di tecnico “diurnista statale di II categoria”, ottenuta in virtù del possesso di un diploma da “perito chimico industriale capotecnico”, mi poneva, nell’ateneo, in una posizione appena sotto a quella dei laureati, al pari di quanto ottenibile nell’industria. L’Ospedale invece non prevedeva allora incarichi, in ambito sanitario, di pari livello.

Per i tecnici di laboratorio di allora, spesso arruolati per sanatoria tra il personale sanitario ausiliario, era richiesta al più una qualifica ottenibile con diplomi professionali triennali, equiparabili a quelli dei corsi per infermieri professionali, con inquadramento in una fascia inferiore di due livelli a quella che possedevo come dipendente universitario. Esistevano in quell’epoca in ospedale ancora due fasce superiori, prima di quelle dei laureati, una per i coordinatori, riservata al personale infermieristico (i/le caposala) ed un’altra non ancora attivata per il personale con diploma quinquennale, integrato da un ulteriore diploma di specializzazione. In Piemonte una scuola di specializzazione per tecnici di laboratorio era stata attivata solo l’anno precedente, presso un altro ospedale cittadino. Molto imbarazzato, mi vidi costretto a segnalare queste mie perplessità al prof. Dogliotti, che non era certo abituato a che dei suoi subordinati, e di così basso livello, opponessero resistenza ai suoi desideri. Non volendo perder tempo in discussioni con me su un argomento che non conosceva, pensò di risolvere la questione facendola chiarire dal Direttore Amministrativo dell’Ospedale.

Vidi in quell’occasione quanto forte fosse ancora l’ascendente dell’eminente Cattedratico universitario sulla Dirigenza dell’Ospedale. Il prof. Dogliotti prese il telefono e chiamò direttamente l’ufficio della Direzione Amministrativa ospedaliera, spiegando sinteticamente il problema. Il Direttore Amministrativo dell’epoca, uomo destinato a divenire molto influente nel panorama politico sanitario cittadino, accettò immediatamente di raggiungerci in Clinica e si presentò nello studio dopo pochi minuti, rassicurando ossequiosamente il prof. Dogliotti che avrebbe provveduto a risolvere lui il problema, convincendomi a superare le mie perplessità. Si fece spiegare da me quali fossero i miei dubbi e quali potessero essere le aspettative atte a farmi accettare il trasferimento, cercando di convincermi che ogni ostacolo avrebbe potuto essere superato. Mi offrì un incarico provvisorio, con accattivanti promesse di sistemazione adeguata non appena avessi conseguito il diploma della nuova specializzazione, da ottenere iscrivendomi al nuovo corso tenuto nell’altra Azienda Ospedaliera torinese. Non faticò molto per convincermi ad accettare, mentre il prof. Dogliotti si disinteressava di noi in un angolo del suo studio, proseguendo la sua attività di lettura di un fascicolo di documenti o pubblicazioni. Conclusa la breve trattativa, il Cattedratico ci congedò sbrigativamente, e questa volta uscii dal suo studio non accompagnato dal sorriso bonario del primo incontro.

Appena varcata la soglia dello studio, anche il cordiale sorriso del Direttore Amministrativo scomparve immediatamente, mentre si allontanava rapidamente per fare ritorno ai suoi uffici. Una volta accettato il trasferimento, a decorrere dal luglio dell’anno successivo, ebbi modo di costatare che le promesse formulate con estrema disponibilità e cordialità in quell’occasione, solo parzialmente vennero mantenute.
Un anno dopo, richiesi un incontro con l’Amministratore Ospedaliero, per rammentargli la parte della promessa non concretizzatasi, ma non ottenni riscontro e capii che era meglio rassegnarsi.
 
Michele Rotunno
 
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