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In cerca di Roncolini

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Quella volta che Roncolini andó in cerca di se stesso


Torino, Ospedale Molinette, circa metà degli anni ‘70

Sarà stata metà mattinata, ed eravamo in tre, seduti - al di là della scrivania - di fronte al Grande Capo, nel suo studio in ospedale: io, il dottor Luca Roncolini (nome di fantasia) ed un terzo assistente che ormai ho dimenticato chi fosse. Non ricordo neppure più di che cosa si stesse parlando – o meglio, di che cosa il Grande Capo ci stesse parlando - dato che noi tre, vedendolo inquieto, irritato e nervoso ad un livello superiore alla media abituale standard, ci limitavamo ad ascoltare in silenzio e ad annuire di tanto in tanto con il capo, senza azzardarci ad infilare una sola parola all’interno del suo discorso.
Tutti e tre sentivamo il progressivo formarsi e l’aleggiare attorno a noi, nella stanza, della classica atmosfera crepitante di elettricità statica che in genere precedeva come un’aura le sue più grosse sfuriate, e ciascuno di noi era quindi spasmodicamente teso – non tanto a capire che cosa lui stesse dicendo – quanto a far sì di non essere quello a cui sarebbe toccato far scoccare la prima – e decisiva – scintilla.
Ad un certo punto il Grande Capo, visibilmente giunto ad un livello di irritazione prossimo alla deflagrazione – quel livello che noi tutti sapevamo ormai riconoscere benissimo e che significava che era necessario, indispensabile, vitale, non contraddirlo più, qualunque fosse stato l’oggetto della discussione – stabilì che, per risolvere il problema, era necessario ottenere maggiori informazioni sull’argomento. Ma da chi si sarebbero dovute ottenere queste ulteriori informazioni nessuno lo seppe mai, poiché egli puntò imperativamente un dito verso Luca, seduto alla mia sinistra, e gli disse con tono che non ammetteva repliche:
“Vada subito a cercare il dottor Roncolini e me lo porti qui!”.
Seguì un lungo, lunghissimo momento di assoluto ed imbarazzato silenzio, nel corso del quale sono certo che nella mente degli altri due passarono, in rapida sequenza, gli stessi pensieri che passarono nella mia, visualizzando nei nostri cervelli l’impossibilità più assoluta e totale. Faccio un esempio: diciamo, il dottor Giachino che alza un ditino e poi dice: “Scusi, Professore, guardi che Roncolini è lui!”. Oppure, peggio ancora, lo stesso Luca che ribatte: “Professore, guardi che Roncolini sono io!”.
Signori! Il suicidio è una cosa seria, e se nel destino sta proprio scritto che uno debba finire così, allora – pensammo tutti e tre – che almeno si arrivi a questo passo estremo in circostanze più strutturate e nobili di questa!
Così, tutti continuammo a tacere ed il silenzio si protrasse sino a che il Grande Capo perse la pazienza e, indicando a Luca la porta con la mano aperta e tremante d’ira repressa, insisté:
“Cosa fa? Cosa fa lì? Vada! Vada!!!”
.
E cosa fece allora Luca? Fece la sola cosa che potesse fare, quella che avrei fatto io stesso al suo posto: si alzò in silenzio, andò alla porta, l’aprì e se ne uscì nel corridoio in cerca di se stesso.
Ah! Ma non è mica finita…! Dopo aver passeggiato per qualche minuto avanti e indietro nel corridoio – io vedevo la sua ombra passare e ripassare lentamente attraverso il vetro smerigliato della porta – Luca si azzardò a rientrare nella stanza. Aveva ancora la mano destra posata sullo schienale della sedia e si stava accingendo a sedersi, quando il Grande Capo lo investi:
“Ah, bene! Eccola, finalmente! Ma dove diavolo si era cacciato? Chissà dov’era, visto il tempo che ci hanno messo a trovarla…!”.
Con voce ancora calma, ma in cui già vibrava un primo tremito di disperazione ed impazienza, Luca osò l’impensabile, e disse adagio:
“Professore, Roncolini sono io…”.
Ma anche questo non fu sufficiente. Il Grande Capo lo squadrò aggrottato dapprima da capo a piedi e poi nel viso per qualche istante, e quindi, con tono conclusivo, ribatté all’impensabile con l’impossibile:
“Ah, è lei! Beh, a maggior ragione allora avrebbe dovuto trovarsi subito….!”.

Giuliano Giachino



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