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La giacca

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



In cui si narra la curiosa storia di due giovani nefrologi, di un treno che parte e di una giacca misteriosa



Roma, Stazione Termini, settembre 1970


Nel 1970, il Congresso Nazionale della Società Italiana di Nefrologia si tenne a settembre non lontano da Roma, nella ridente cittadina di F*, famosa per le sue acque termali benefiche (?) per le malattie renali: ho messo il punto interrogativo in quanto esse possono sortire effetti positivi solo in alcune particolari patologie e non in tutte le malattie dei reni.
Il Grande Capo in persona si mostrava in proposito un po’ scettico, visto che - ad un paziente di ritorno da un periodo di “acque”, che dichiarava di sentirsi benissimo, come rinato – ebbe a rispondere ironicamente:
“Per forza che si sente benissimo: dopo una bella settimana di vacanza...!”.  
Ad ogni modo, il Congresso di F* del 1970 fu uno dei primi a cui il sottoscritto prese parte, assieme al suo collega e coetaneo Sandro A.: ci potete vedere nella fotografia posta sotto al titolo, scattata proprio in quella occasione. Come eravamo giovani! E ingenui! E inesperti! E – aggiungo ora – anche imbranati!
Avete mai notato il fatto che, se due persone “imbranate” ad un certo livello si vengono a trovare assieme in circostanze per loro inaspettate e inconsuete, all’improvviso questo livello si accresce esponenzialmente, tendendo a generare situazioni incredibili ed assurde? Beh, nel caso di Sandro e del sottoscritto era proprio così, e la cosa ebbe a verificarsi non solo nell’occasione che mi accingo a narrarvi, ma anche numerose altre volte, come potrete constatare leggendo altri capitoli di questa raccolta.
E prima di incominciare, una piccolissima precisazione: a quei tempi i cosiddetti “telefonini” cellulari non esistevano ancora: tenetelo presente nel leggere!
Dunque: la storia inizia alla fine del Congresso, un sabato mattina. Sandro ed io uscimmo dal nostro alberghetto (il Grande Capo era sceso, con i suoi più stretti collaboratori, al “Grand Hotel delle Terme”, mentre noi due, semplici volontari non ancora assunti - allora si diceva “non strutturati” - eravamo alloggiati, e a nostre spese, alla “Pensione Serenella” o qualcosa del genere), e prendemmo, dalla stazioncina locale, un trenino che oggi non esiste più, e che collegava direttamente F* con la stazione Termini di Roma.
Ben presto, durante il lento tragitto attraverso la campagna laziale – splendeva il sole di una bella giornata di settembre - ci rendemmo conto che il trenino accumulava sempre più ritardo, e che la coincidenza con il treno per Torino, a Termini, rischiava seriamente di saltare.
All’arrivo a Termini eravamo già piuttosto agitati, ma potemmo constatare che fortunatamente il treno per Torino era ancora là: con una corsa disperata lo raggiungemmo trafelati, trascinandoci dietro la rispettiva valigia, poi salimmo sistemandoci in uno scompartimento, sudati ed ansanti. Faceva così caldo che, prima ancora di sistemare le valigie sulle reticelle, Sandro si tolse la giacca e la appese ad un gancio, rimanendo in maniche di camicia.
Ma non aveva ancora quasi terminato il gesto, che si bloccò improvvisamente, dicendo: “Santo Cielo! E i biglietti? Non abbiamo fatto i biglietti!”.
Cercai di ribattere che li avremmo fatti in viaggio, pagando il sovrapprezzo dovuto, ma ormai Sandro era entrato in azione, e quando lui entrava in azione non c’era nulla al mondo che lo potesse fermare: mi disse imperativamente, mentre già si muoveva rapido verso l’uscita, di dargli dei soldi, io glieli allungai meccanicamente, lui scese dal treno di corsa, in maniche di camicia, e scomparve alla mia vista correndo verso la biglietteria. Il tutto in pochi secondi.
Io rimasi lì, piuttosto perplesso e con la sensazione di sentir addensarsi attorno a me cupe nubi temporalesche: mi ero infatti subito reso conto di avergli dato un biglietto da diecimila lire (di quelli rosa, con sopra Michelangelo), e che quel biglietto era tutto, ma proprio tutto, il denaro che mi fosse rimasto: non un biglietto da cinquecento lire, non una monetina. Niente. Che cosa avrei fatto se lui non fosse tornato in tempo?
Ed in effetti, lui non tornò in tempo. Sporgendomi dal finestrino per cercar di vedere se arrivava, vidi l’addetto in divisa che camminava lungo il treno chiudere le porte l’una dopo l’altra, poi lo vidi alzare la palina con il cerchio verde che significa “via libera”, infine lo vidi con terrore portare il fischietto alle labbra… E di Sandro, nessuna notizia! Con la rapidità di un fulmine afferrai la mia e la sua valigia, strappai la giacca dal gancio a cui era appesa e mi buttai giù dal treno…
…giusto in tempo per vedermi sfilar davanti Sandro in maniche di camicia, in piedi sul predellino dell’ultimo vagone, aggrappato con la destra alla maniglia e con nella sinistra due biglietti nuovi fiammanti di sola andata per Torino Porta Nuova.
Cosa volete che vi dica, andò proprio così, succede…, ma quello che non sapevo ancora era che quello era solo l’inizio…
Superato infatti il primo momento di – diciamo – “vivo disappunto” per l’accaduto, cercai di ragionare, e stabilii per prima cosa che il problema più preoccupante era l’assoluta mancanza di soldi; come seconda cosa, conclusi che nella giacca di Sandro, che avevo in mano, ci doveva pur essere un portafoglio o qualcosa del genere, con dentro del denaro; e come terza cosa cominciai a frugare alla sua ricerca nelle diverse tasche dell’indumento.
Ora, accadde che, ad un certo punto, mentre continuavo a frugare, un qualcosa cadde da una delle tasche sul cemento del marciapiede, si aprì e rimase lì, in piena luce, proprio sotto il mio naso: una carta di identità. La faccia mai vista prima di uno sconosciuto, un giovanotto all’incirca della mia stessa età. Sentendo un brivido di freddo scorrermi lungo la schiena, raccolsi il documento e lessi con orrore: “Giuseppe D’Andrea, via Tripoli 318, Roma”. Nella fretta, avevo preso la giacca di un altro!
Non mi dilungherò troppo – per pudore – sulle modalità con cui riuscii a raggranellare quanto necessario per far ritorno a Torino. Vi dirò solo che a Roma abitava una mia vecchia fiamma, una ragazza conosciuta durante le vacanze di qualche anno prima in montagna, con la quale avevo filato un poco, e poi la cosa era finita lì: per cui attraversai a piedi, trascinandomi dietro due valigie e una giacca, mezza Roma (e chi li aveva i soldi per un taxi o per un tram?), le feci una specie di improvvisata e lei ebbe pietà di me, prestandomi il necessario.
Poi ci fu il problema di restituire la famosa giacca al suo legittimo proprietario, o almeno a qualcuno dei suoi parenti. Per cui mi recai in via Tripoli 318, all’altro capo di Roma, e suonai alla porta della famiglia D’Andrea.
Mi aprì una signora di mezza età che, vedendo davanti a sé uno sconosciuto con in mano la giacca di suo figlio, sulle prime si spaventò terribilmente: ma con poche parole gentili io riuscii a spiegarle – non so neppure adesso come ci sia riuscito - l’intricata situazione, ed essa parve rasserenarsi. Sorrise, prese la giacca e – su mia richiesta – controllò che non mancasse nulla; infine mi guardò in viso e aggiunse con aria tra il critico e lo sconsolato:
“Quel ragazzo! Ė un distratto, sapesse, lascia sempre tutto in giro…”
Cercai di spiegarle come suo figlio non avesse affatto lasciato la giacca in giro, ero io che gliela avevo presa per sbaglio, ma lei mi interruppe con tono deciso:
“No, no, non lo giustifichi, sa? Una bella lavata di capo, quando torna, non gliela leva proprio nessuno..!”
Poi, dopo un attimo di silenzio:
“Certo che si sarà trovato in difficoltà, all’arrivo. Come avrà fatto ad entrare nella casa di Savona, le chiavi sono rimaste nella giacca…”
Cominciava ad essere troppo. Chiesi conferma del fatto che nella giacca non mancava nulla, salutai e feci per andarmene. Lei mi trattenne aggiungendo:
“No, aspetti. Le persone cortesi e corrette come lei sono ormai una rarità… Mi lasci il suo indirizzo, che la faccio ringraziare da mio figlio…”
A questo punto io scappai, letteralmente, giù per le scale.
Il ritorno notturno – il tempo era passato e dovetti prendere un treno serale – fu lungo e faticoso. Dormii sul sedile a sprazzi, continuando a sognare la faccia di Giuseppe D’Andrea. All’arrivo a Torino – era ormai domenica mattina – andai direttamente a casa di Sandro. Appresi così di esser stato visto da lui sul marciapiede della stazione, mentre il treno mi sfilava davanti. Appresi che il buon Sandro, una volta constatato il disastro, aveva lentamente risalito il treno sino al nostro scompartimento, dove – oltre al sottoscritto – non c’erano più né la mia né la sua valigia. C’era invece la sua giacca, sempre attaccata al gancio a cui lui l’aveva appesa… Appresi che, dopo averla presa e mentre se la stava infilando, era saltato fuori da qualche parte una specie di energumeno tutto rosso in viso che gli aveva quasi gridato:
“Ecco, lei, lei è l’amico di quello che mi ha fregato la giacca! Vi ho visti parlare assieme!”
Sandro capì tutto in un istante, ma negò recisamente.
E al termine del nostro colloquio, concluse:
“Capisci, Giuliano, ho dovuto continuare a negare fino a Savona…”

Giuliano Giachino


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