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La malattia e il potere

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11
La malattia e il potere.
 
Pier Luigi Cavalli
 

         Ippocrate si esprimeva in greco antico, che è una delle poche lingue, per quel che ne so, che adotta il numero duale, intendendo per numero la categoria grammaticale. Duale è l’insieme costituito da due entità, intermedio quindi tra il singolare e il plurale. Duali sono i rapporti d'amore e d'amicizia e duale, fa osservare il prof. Giorgio Cosmacini, medico e storico della medicina, è da sempre il rapporto privilegiato tra medico e paziente, almeno all’inizio, quando la percezione della malattia si trasforma in comprensione condivisa. Ippocrate si esprimeva in greco antico, che è una delle poche lingue, per quel che ne so, che adotta il numero duale, intendendo per numero la categoria grammaticale. Duale è l’insieme costituito da due entità, intermedio quindi tra il singolare e il plurale. Duali sono i rapporti d'amore e d'amicizia e duale, fa osservare il prof. Giorgio Cosmacini, medico e storico della medicina, è da sempre il rapporto privilegiato tra medico e paziente, almeno all’inizio, quando la percezione della malattia si trasforma in comprensione condivisa.
         Nell’ambito di questo rapporto la professione conferisce al medico il potere derivante dalla conoscenza e dalla tecnica. Egli possiede infatti gli strumenti che gli consentono di interpretare correttamente i segni e i sintomi, di esprimere quindi una diagnosi e di guarire o, almeno, di curare adeguatamente i mali del paziente che a lui si affida. Nella maggior parte dei casi questo tipo di potere viene esercitato con buon senso e discrezione, ma quando il paziente si affida ad un “luminare della medicina”, tanto più se questi possiede un grande carisma, si configura una situazione di forte squilibrio, che assicura al curante un carattere quasi sacrale. In questi casi il medico si trasforma in taumaturgo e soffoca l’autonomia del malato, che viene così a trovarsi in una condizione di totale sottomissione psicologica.
         Tale squilibrio non esiste nella situazione opposta, cioè quando è il paziente ad essere un potente, anche perché questi non si affida generalmente al “medico della mutua”, ma ad un suo pari in campo medico. In tal modo l’asimmetria viene corretta e l’equilibrio ristabilito, ma il rapporto che si instaura in questi casi rischia talora di trasformarsi in una collusione tra potenti a danno di terzi.
         Nei palazzi del potere la malattia in passato (e talora ancora adesso) veniva spesso negata o nascosta perché, secondo una Vulgata molto diffusa ancora oggi, chi perde la salute anche solo parzialmente, non può più svolgere appieno il suo ruolo nella società, soprattutto quando il ruolo è importante. Ma in questi ultimi anni si assiste sempre più spesso, da parte dei grandi della terra, ad un’esibizione delle proprie malattie, anche delle più imbarazzanti. Una condotta apparentemente in controtendenza, ma in realtà in totale accordo, con l’ideologia contemporanea imperante che esalta la salute e pretende di sconfiggere la morte. E poiché la visibilità televisiva è ormai diventata uno strumento di potere, non ci sarà da stupirsi se il futuro ci riserverà una sovraesposizione mediatica delle malattie dei potenti.
         A giudicare da quanto ci propongono giornali e televisione i potenti non invecchiano, talora con la complicità di lifting, fitness ed integratori farmacologici o alimentari. Politici e principi della Chiesa novantenni appaiono fisicamente più vispi di un minatore trentenne del Sulcis. Essi non invecchiano, ma non è detto che la malattia abbia per loro particolari riguardi. E un antico detto suona: “Ipsa senectus morbus”, la vecchiaia è, di per sé, una malattia.
         Però colui (o colei) che detiene un grande potere difficilmente rinuncia ad esso, anche quando risulta evidente a tutti, tranne che alla persona direttamente interessata, un’incapacità fisica o mentale, tenuta accuratamente nascosta, per interessi diversi, dai cortigiani che la circondano e da medici curanti servili. Essa continuerà a negare che il suo stato di salute sia incompatibile con la direzione di uno stato o di un esercito, e di ammettere che la sua malattia possa comportare gravi conseguenze per i concittadini.

         A questo punto ci si può domandare: che cosa succede quando il malato, oltre che un potente, è anche medico?
         La sensazione di potenza del medico, connaturata, l’abbiamo visto, alla sua professione, viene esaltata con l’accentuarsi del prestigio sociale.         
         Oggi le cose stanno cambiando, ma il Cattedratico di un tempo, considerato il depositario di tutto il sapere in un determinato campo, era detentore di un potere straordinario. Non scopro nulla di nuovo se dico che il Corpo Medico Accademico era, fino a non molto tempo fa, un’istituzione molto aristocratica la quale, proprio dall’aristocrazia, aveva ereditato la struttura gerarchica verticistica, i fastosi cerimoniali e addirittura la terminologia. Essere definiti “baroni” non dispiaceva affatto ai vecchi cattedratici. Ricordo che uno di questi, nel sentirsi così definire da un intervistatore televisivo, scherzosamente si adombrò pretendendo il titolo di “principe”. Ma i colleghi che hanno pressappoco la mia età, ricordano certamente che, all’interno delle Cliniche Universitarie, i Direttori erano comunemente chiamati “padroni”, e senza ombra di derisione,.
         “Breve è la vita, lunga l’arte…” scriveva Ippocrate più di duemila anni fa. E nella plurimillenaria storia di quest’Arte lunga, l’Illuminismo Medico è ancora giovane ed è da poco tempo che l’Ancien Régime ha cominciato a perdere i pezzi.
         A differenza di quel che succede ai potenti della politica e della guerra, ci si aspetterebbe che i potenti della medicina si rendessero conto dei propri limiti quando giunge il momento di fermarsi per motivi di salute. Purtroppo è proprio in questa categoria di persone che frequentemente subentra invece una deleteria forma di anosognosia. Etimologicamente il termine significa “non riconoscere la propria malattia”, il che comporta, di conseguenza, un’assenza totale di autocritica.

         A questo proposito vorrei soffermarmi sulla figura contraddittoria ma emblematica di un famoso chirurgo tedesco: Ferdinand Sauerbruch.
         Nato nel 1875, dotato di intuito e tecnica eccezionali, egli fu un pioniere nel campo della chirurgia toracica e uno scienziato di chiarissima e meritata fama.
         Fuori dell’ospedale in cui lavorava, la“Charité” di Berlino, era brillante ed amante della vita mondana, ma in sala operatoria egli diventava tirannico, arrogante e violento, non solo verbalmente, con i collaboratori d’ogni livello. Nessuno però mise mai in dubbio la sua abilità professionale e la dedizione al lavoro. Ebbe come pazienti, tra gli altri, Lenin, Mussolini, Hindenburg, e il Re di Grecia, ma operò centinaia di poveracci, rinunciando ad ogni compenso. Se fosse vissuto ai giorni nostri, sarebbe stato certamente accolto come presenza fissa nei vari talk shows televisivi.
         La fase più fulgida della sua attività professionale coincise col periodo d’oro del nazismo, ma da questo fu solo marginalmente coinvolto e, dal punto di vista ideologico, non sembra ne sia stato contagiato.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale egli aveva settant’anni. L’ospedale in cui aveva fino allora lavorato, si trovava nella parte orientale di Berlino, controllata dall’Unione Sovietica. Fu riconfermato al suo antico posto in ragione della sua fama, ma questo coincise con l’inizio della fine. Il suo declino mentale, sempre più evidente col passar del tempo, fu però tenuto nascosto sia dai colleghi, per timore di rappresaglie, che dalle autorità amministrative dell’ospedale, perché la notorietà del suo nome attirava fondi e donazioni. I suoi assistenti erano costretti a rioperare i pazienti nel cuore della notte per porre rimedio ai grossolani errori da lui compiuti.
         Alla fine fu privato del suo incarico, ma continuò ad operare nella cucina di casa sua, con conseguenze facilmente immaginabili. La morte per emorragia cerebrale, avvenuta nel 1951, gli evitò le azioni legali che stavano per piombargli addosso.
         Dicono che, fino all’ultimo respiro, movesse ossessivamente la mano risparmiata dalla paralisi come se stesse suturando un’inesistente incisione chirurgica.
         L’antico poeta latino Giovenale si domandava: “Quis custodiet ipsos custodies?”, cioè “Chi sorveglierà i guardiani?”. E’ una domanda che, nella storia dell’umanità, ricorre periodicamente e che si è ripresentata, spesso in modo drammatico, anche in questi ultimi tempi.
         Ma da duemila anni questa domanda resta senza risposta.



 
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