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Olandese Volante

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Der fliegende Holländer, in lingua originale



Torino,Teatro Regio, attorno al 1970 o giù di lì

Una mattina in ospedale, al termine del giro della corsia, il Grande Capo ci convocò tutti quanti – dai suoi secondi giù sino ai giovani volontari non strutturati tra cui il sottoscritto – di lì a qualche giorno a casa sua, verso le ore 21, per discutere di una questione importante. Onestamente, non ricordo più quale fosse lo scopo della riunione, ma suppongo si dovesse decidere l’impostazione generale di un lavoro destinato a venir presentato come comunicazione o poster ad un qualche congresso.
Presi, allora, questa convocazione come una vera e propria pugnalata alle spalle da parte del cosiddetto “destino cinico e baro”. Proprio la sera prescelta, infatti, figurava nei miei programmi l’ascolto, presso il Teatro Regio, dell’opera “Der fliegende Holländer”, cioè “L’Olandese volante” di Richard Wagner (nota in Italia come “Il vascello fantasma”): e chiunque mi conosca conosce anche la mia passione per la lirica e per Wagner in particolare (sono abbonato alla stagione operistica del Teatro Regio di Torino – ed ininterrottamente – a partire dal 1964).
Tutti aderirono alla richiesta del Capo, compreso il sottoscritto, che non osò – unico – opporre resistenza. Manifestai però il mio disappunto – con parole alate, naturalmente – all’amico Roberto, cui davo già del tu, e a Beppe P., a cui – il nostro rapporto era allora solamente professionale e l’amicizia doveva ancora maturare – davo ancora del lei: ed entrambi scossero la testa e mi fecero capire che non c’era nulla da fare.
Ricordo la sera di quella riunione come un evento per me tragico: mentre al Teatro Regio risuonavano le prime note della favolosa “ouverture”, noi eravamo attorno a un tavolo, impegnati in discussioni che, nel mio stato d’animo, non riuscivo a seguire, chini su dei fogli cosparsi, almeno per me, da geroglifici dell’Antico Regno (ma a mia parziale attenuante posso qui ricordare come la calligrafia del Capo non fosse molto diversa).
Nonostante tutto ciò, strinsi i denti e feci il mio dovere: presi parte alla discussione, espressi la mia opinione su qualche punto e contribuii al buon esito della riunione, anche se essa durò assai poco ed apparve ai miei occhi come una riunione inutile, poiché i dati sino al quel momento raccolti erano ancora insufficienti per impostare correttamente il lavoro.
Qualcuno dovette tuttavia notare l’una e l’altra cosa: cioè a dire, da una parte il mio umore – a dir poco funereo – e dall’altra lo sforzo che stavo facendo per prendere la cosa in modo positivo e collaborare. E fu infatti con grande piacere che, pochi giorni dopo, vidi il professor P. prendermi da parte e dirmi:
“Giachino, guardi, ho preso due biglietti per la replica del “Vascello fantasma” di Venerdi. Ci andiamo assieme. Davanti al teatro mezz’ora prima dell’inizio”.
Il Venerdi, più che puntuale, giunsi davanti al teatro con un’ora di anticipo. La norma, per me, è arrivare almeno mezz’ora prima agli appuntamenti: sono sempre stato un ansioso ed il Grande Capo, maniacale sotto questo punto di vista, ha certamente contribuito a strutturare questa mia ansietà di base.
Mezz’ora prima dell’inizio dello spettacolo – cioè all’ora convenuta – cominciai a preoccuparmi. Un quarto d’ora prima, ero già agitato al pensiero di perdere la rappresentazione per la seconda ed insperata volta. Cinque minuti prima ero in preda alla più nera disperazione.
Gli uscieri stavano chiudendo le porte del teatro ed io avevo ormai perso ogni speranza quando finalmente Beppe apparve all’orizzonte, trafelato, e riuscimmo ad entrare appena in tempo.

L’esecuzione dell’opera fu strepitosa. Scenografia tradizionale ma bella, ottimo direttore, buoni i cantanti, orchestra in forma (cosa, quest’ultima, da rimarcare, trattandosi di Torino).
Ero contento, felice, seguivo la musica, non perdevo una nota. Non conoscevo ancora il tedesco (l’opera era data – come deve essere – in lingua originale) ma, conoscendo la trama e l’argomento, riuscivo anche a seguire abbastanza bene i dialoghi ed i cantanti.
Ad un certo punto tuttavia, l’immobilità, il silenzio, la concentrazione di Beppe, seduto accanto a me, mi parvero innaturali, eccessivi, e mi voltai verso di lui: e vidi che lui, abbandonato sulla poltrona, stava beatamente dormendo.
Il mio spiritello interiore toscano – quello cattivo – cercò di spingermi a svegliarlo, ma resistetti, e non lo feci.
E fu bene così, perché solo alcuni giorni dopo – e non da lui – venni a sapere da terzi che era giunto trafelato al teatro direttamente dall’aeroporto di Caselle e da Bruxelles, dopo un viaggio avventuroso e disagevole.
Questo piccolo episodio – chissà se lui se lo ricorda ancora – non è stato per me marginale, ed è rimasto fissato nei miei ricordi. Ancora oggi, a quasi quarant’anni di distanza, mi fa piacere ripensarci.

Giuliano Giachino


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