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Prendetene e mangiatene tutti e pacchetto vuoto

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Prendete e mangiatene tutti…
ed anche
Il pacchetto di sigarette pieno ed il pacchetto di sigarette vuoto




Torino, domicilio del Grande Capo, una domenica di Pasqua a metà degli anni ‘70


Come accadde più di una volta nel corso degli anni ’70, il Grande Capo aveva convocato quel giorno a casa sua un gruppetto di collaboratori, al fine di discutere di un problema importante oppure – non ricordo più la ragione precisa – di iniziare ad impostare la nostra partecipazione ad un congresso con un poster o una comunicazione orale.
Quando queste convocazioni si verificavano, il preavviso temporale era immancabilmente brevissimo. La convocazione era sempre per il giorno dopo oppure, al massimo, per il dopodomani: e poiché tutti noi sapevamo per esperienza maturata che era necessario, vitale, essere presenti, ciascuno aboliva immediatamente qualsiasi tipo di impegno avesse preso per il giorno fatidico e – magari “obtorto collo” - si rendeva disponibile.
Si dà il caso tuttavia che, nell’occasione specifica che mi accingo a narrare, il giorno prescelto dal Capo per la riunione fosse una domenica e, per giunta, la domenica di Pasqua (Lui, in realtà, come vedremo, si era completamente dimenticato di questa coincidenza temporale, e pensava che quella fosse una domenica qualunque): potete immaginare, pertanto, come la maggioranza dei cinque presenti, tra cui il sottoscritto, non si trovasse nello stato d’animo più sereno e disponibile.
La riunione iniziò verso le nove del mattino e si rivelò assai più lunga di quanto noi, anche nelle ipotesi più nere, avessimo previsto: dalla finestre entrava la luce di una bella giornata di sole, le ore passavano, qualcuno di noi cominciava ad aver fame e sete, iniziavano a vagare tra di noi reciproci sguardi interrogativi, ma nessuno osava sottoporre al Capo l’improponibile ipotesi di tornare a casa per il pranzo per poi ritrovarci, a terminare il lavoro, nella seconda metà del pomeriggio.
Si era ormai di poco oltre le due del pomeriggio (alcuni di noi erano a quel punto quasi accasciati sulla scrivania) quando il Grande Capo si interruppe d’un tratto a metà di una frase, ci squadrò uno dopo l’altro dall’altra parte del tavolo, ed esclamò inaspettatamente:
“Ma.. ma oggi.. oggi è Pasqua! Sono le due e voi non avete ancora mangiato nulla! Avrete fame!”.
Ci fu un breve attimo in cui tutti noi ci illudemmo che Lui si fosse finalmente reso conto della situazione e che ce l’avremmo fatta in extremis a tornare a casa almeno per il pranzo... ma Lui, alzandosi dalla sedia ed uscendo dalla stanza, incenerì subito le nostre speranze con cinque brevi parole foriere di cupi e tragici presagi:
“Beh… adesso ci penso io…”
Attraverso la porta aperta lo sentimmo rabastare qua e là in cucina, aprire e poi richiudere scansie ed armadietti, borbottare tra sé e sé parole incomprensibili. L’atroce dubbio che si agitava nella nostra mente era: che cosa diavolo ci avrebbe portato? Non era lecito nutrire troppe speranze: lui viveva solo, non sapeva assolutamente cucinare, quasi sempre mangiava al ristorante, e non era in alcun modo ipotizzabile che conservasse nel frigorifero qualcosa di appetitoso... Ma, nonostante fossimo a conoscenza di tutto questo, ciascuno di noi si aspettava poco, ma pur sempre un qualcosa di meglio di quanto ci toccò.
L’attesa, infatti, durò pochissimo tempo, ed i nostri timori ricevettero la più tragica conferma allorché Lui ricomparve sulla soglia con aria trionfante, tenendo in mano una piccola ciotola di porcellana piena di… tanti piccoli ovetti pasquali di cioccolata avvolti in carta stagnola multicolore.
Posò la ciotola davanti a noi, in mezzo alla scrivania, e se ne uscì – giuro – con una battuta memorabile e, almeno io credo, assolutamente innocente ed involontaria. Nientemeno che: “Prendete e mangiatene tutti…!”
Così, ciascuno di noi mangiò il suo ovetto pasquale – qualcuno Gli chiese se ne voleva uno anche Lui, ma Lui rifiutò generosamente dicendo che erano tutti per noi – e la riunione proseguì come se nulla fosse.
A quel punto, tuttavia, eravamo tutti un po’ nervosi, ed io in particolare. Tra l’altro, avevo terminato le sigarette e la situazione era proprio una di quelle in cui ti viene voglia di fumare. Posato al centro della scrivania, proprio davanti a me, c’era un pacchetto, quello del Capo, un pacchetto di quelli rigidi, fatti a scatoletta. A questa vista, cominciò allora a formarsi nella mia mente un’ipotesi blasfema: nientemeno che quella di fumare una delle Sue sigarette.
Chiedergliela – anche se il termine non era stato ancora inventato - non sarebbe stato per nulla “politically correct”. E così, approfittando di un momento in cui Lui si era nuovamente allontanato dalla stanza e sfidando gli sguardi angosciati dei colleghi di fronte al mio gesto sacrilego, presi il pacchetto, lo aprii e, pur constatando che esso conteneva una sola ed ultima sigaretta, la presi, me la misi in bocca e l’accesi.
Quando il Capo tornò a sedersi all’altro lato della scrivania, prese a sua volta il pacchetto, ma esso si rivelò desolatamente vuoto. Allora mi guardò per qualche attimo in silenzio, con aria sospettosa, ma io – sigaretta in bocca – rimasi impassibile e sostenni il suo sguardo senza vacillare.
E a questo punto ebbe inizio da parte sua una serie – non trovo altra parola per definire la cosa - di “gags” involontarie che sortirono il risultato – dal mio personale punto di vista – di addolcire almeno in parte lo strazio di quell’interminabile pomeriggio.
Come prima cosa, avendo constatato che il pacchetto era vuoto, il Grande Capo si alzò dalla sedia, si portò davanti ad un grosso canterano che si trovava in un angolo della stanza e, chinandosi tutto in avanti, ne aprì il cassetto più basso, a livello del pavimento: e tutti potemmo vedere che esso era ricolmo di pacchetti di sigarette. Sempre chinato in avanti, ne prese uno, identico a quello vuoto rimasto sulla scrivania, gli tolse l’involucro di plastica trasparente, poi richiuse il cassetto e fece per rialzarsi.
Purtroppo per lui, la sua cravatta, penzolando verso terra, era rimasta incastrata nel cassetto, e lascio a voi immaginare la scena…
Ricorrendo ad un violento sforzo di volontà, tutti noi riuscimmo a non ridere e rimanemmo serissimi…: ma questo era solo l’inizio!
Una volta sedutosi alla scrivania, infatti, il Grande Capo ricominciò a parlare nervosamente dell’argomento per cui eravamo tutti lì riuniti. Parlando, teneva tra le mani i due pacchetti di sigarette – quello pieno e quello vuoto, che era rimasto sul tavolo - e, probabilmente per allentare la propria tensione, incominciò a giocare con essi, sovrapponendoli a turno uno sopra l’altro, ripetutamente, nel mentre che andava avanti col suo discorso.
Ad un certo punto, decise di fumare. Si fermò, prese uno dei due pacchetti, lo aprì e constatò di aver aperto il pacchetto vuoto. Allora lo richiuse e prese l’altro, ma, prima di aprirlo, ricominciò a parlare, si distrasse e riprese a sovrapporre nervosamente i due pacchetti. Quando, dopo qualche minuto, decise nuovamente di fumare, prese uno dei due pacchetti, lo aprì, ma era sempre quello vuoto…
La cosa si ripeté quattro o cinque volte, e a questo punto nessuno lo ascoltava più, tutti eravamo concentrati sulle sue mani, in attesa di scoprire “quale” pacchetto avrebbe aperto la volta successiva…
Quando aprì per la quinta volta consecutiva il pacchetto vuoto, si incazzò decisamente. Decise di risolvere la situazione una volta per tutte: prese con gesto deciso uno dei due pacchetti – quello pieno – e lo gettò con rabbia nel cestino della carta straccia, posato per terra accanto a lui.
Allorché, dopo due minuti, aprì il pacchetto che gli era rimasto in mano, constatò che dentro – naturalmente – non c’era nulla.
Il suo furore, a questo punto, traboccò: prese il cestino della carta straccia, se lo posò sulle ginocchia e cominciò a vuotarlo gettando un po’ per volta tutto il suo contenuto – fogli, mozziconi, pallottole di carta e quant’altro – oltre le proprie spalle, sul pavimento della stanza, sino a che non ritrovò il pacchetto pieno, ne cavò una sigaretta e l’accese con evidente soddisfazione e l’aria di chi è riuscito finalmente a risolvere un problema di quelli difficili.
La riunione, purtroppo per noi, terminò solo verso le ore 20. Tornando a casa mi sentivo vuoto ed esausto, ma sentivo dentro di me anche un piccolo filo di divertimento: avevo sì – la domenica di Pasqua - lavorato, sudato, digiunato, ma la giornata mi aveva comunque regalato anche una piccola ed indimenticabile “comica finale”!

Giuliano Giachino



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