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Problemi di parcheggio

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Problemi di parcheggio nel cortile interno dell’ospedale Molinette



Torino, cortile interno dell’Ospedale Molinette, seconda metà degli anni ‘60

Nella seconda metà degli anni ’60 frequentai continuativamente - dapprima come studente e quindi, dopo la laurea nel 1968, come medico volontario - il reparto di nefrologia e dialisi del professor Vercellone, sito al terzo piano della Clinica Medica dell’Università, diretta dal cattedratico professor GCD, di cui Vercellone era aiuto.
L’attività e l’impegno temporale che venivano richiesti a me e agli altri allievi era notevole: quando si era di turno, ad esempio – e almeno nei primi tempi a dividerci i turni in sala dialisi eravamo solo in tre - era necessario giungere in reparto alle prime luci dell’alba se non addirittura prima, per consentire il tempestivo inizio delle applicazioni dialitiche sui primi pazienti cronicamente dializzati della storia della nefrologia piemontese.
Dato poi che le applicazioni duravano allora ben 12 ore consecutive, l’impegno giornaliero – un giorno su tre – era in definitiva, come minimo, dalle 7 del mattino alle 19. Negli altri giorni, quando non si era di guardia in sala dialisi e ci si dedicava ai ricoverati o agli ambulatori, la nostra presenza in reparto era minore, ma non di molto.
Questo apprendistato e questi orari così protratti avevano fatto sì che noi allievi o giovani medici non si venisse quasi mai coinvolti nello spinoso problema del parcheggio dell’auto al momento dell’arrivo in ospedale.
Abitualmente, tutti i medici che svolgevano la loro attività alle Molinette parcheggiavano infatti la loro auto nei vari cortili interni dell’ospedale, i quali, tuttavia, nel loro insieme, erano decisamente insufficienti alla bisogna. Il risultato era quasi sempre quello di auto di tutte le dimensioni e cilindrate parcheggiate in tutti i modi e in tutte le posizioni possibili, ciascuna a pochi centimetri dall’altra: e districarsi da questo groviglio, se si doveva lasciare l’ospedale non troppo tardi, era una vera e propria impresa. Noi invece, proprio perché i nostri orari di lavoro erano quelli che ho illustrato prima, si giungeva sul posto ad ore antelucane, a cortile ancora pressoché vuoto, parcheggiando con facilità, e si ripartiva in orari serali, quando la maggior parte delle auto se ne era già andata e c’era nuovamente molto spazio a disposizione.
Ora, si dà il caso che un giorno, non ricordo più per quale motivo, giunsi in ospedale solo a mattinata inoltrata, trovando tutti i cortili interni pieni di autovetture sistemate nei modi più strani, e senza che avanzasse il più piccolo quadratino di spazio in cui lasciare la mia. Affannato poiché sapevo che il Grande Capo – maniaco della puntualità - mi stava aspettando, abbandonai la mia auto “alla pirata”, in una posizione un tantino scorretta, che “chiudeva” un piccolo gruppo di altre auto.
Lo so, lo so, avrei dovuto lasciare bene in vista un biglietto con le mie generalità e il numero telefonico del reparto, per poter essere rintracciato in caso di necessità: ma, come ho detto, il Grande Capo mi stava aspettando, ero già in ritardo, ed in una situazione come quella, ogni altro problema passava automaticamente in secondo piano. Così, corsi dal Capo, e mi dimenticai completamente della cosa.
Quella fu una giornata di lavoro particolarmente lunga e impegnativa. Lasciai l’ospedale solo verso le 20, uscii nel cortile e mi avviai lentamente, con passo stanco, verso la mia auto: e mentre ancora ero lontano, constatando come essa fosse una delle poche rimaste, pensai:
“Beh.., meno male.., quelli che avevano parcheggiato oltre, non li avevo proprio completamente ‘chiusi’, in qualche modo sono riusciti ad andarsene…”.
Ma avevo appena formulato questo pensiero che, avvicinandomi ulteriormente, mi accorsi che sotto il tergicristallo della mia auto c’era un piccolo foglio di carta bianca…
Lo presi, lo guardai, lo lessi, e – in contemporanea – misi a fuoco nella mia mente una serie di cose, le prime tre decisamente sgradevoli e la quarta invece inaspettatamente gratificante. Allora, nell’ordine:
Primo: qualcuno doveva aver faticato molto per districare la sua auto dal mucchio ed uscire passando dietro alla mia.
Secondo: questo qualcuno si era seccato assai per tutte le manovre che aveva dovuto fare, ed aveva deciso di rendermi noto il suo disappunto con il foglietto che avevo in mano. E fin qui, nulla da ridire.
Ma però… Terzo: quello che c’era scritto sul foglietto non era la più che legittima manifestazione di una contrarietà o di un disappunto. Sul foglietto che avevo in mano stava scritta una vera e propria sfilza di epiteti volgari e di parolacce, con le quali il sottoscritto veniva mandato letteralmente a… beh, sapete tutti dove. E questo non mi piacque affatto.
Quarto: la meraviglia! L’autore della missiva insultante non aveva utilizzato allo scopo un qualsiasi foglietto di carta! Nooo! Incredibilmente - e anche imprudentemente - aveva fatto uso di un foglio del proprio ricettario, con nome, cognome, titolo di studio, specialità, indirizzo e quant’altro stampati in chiare lettere in alto a sinistra…
Si trattava di un collega non nefrologo più anziano di me, che oltretutto mi era sempre stato antipatico.
Mi guardai attorno, con il ricettario in mano ed in mente una mezza idea, che andava però completata e perfezionata.
Esaminai rapidamente, ma con attenzione, le poche macchine che erano rimaste ancora parcheggiate accanto alla mia.
Con gesto rapido e silenzioso, infilai il foglietto sotto il tergicristallo dell’auto del professor GCD, il cattedratico che dirigeva l’intiero istituto.
Poi salii sulla mia auto e me ne andai sgommando.
Non ho mai voluto conoscere la conclusione della storia.

Giuliano Giachino



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