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Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



In cui si narra di come conversai per telefono con i polmoni di un paziente



Torino, Ospedale Molinette, verso la metà degli anni ‘70

La notte di guardia era stata faticosa come poche prima di allora, ma stava finalmente per terminare. Praticamente non mi ero ancora – dalle 20 della sera prima – non dico coricato sul letto della stanza del medico di guardia, ma neppure seduto un attimo su di una sedia per tirare il fiato.
Per combattere la sete e la disidratazione – si era di luglio ed il caldo era soffocante - avevo cercato di trangugiare un paio di bicchieri d’acqua in piedi, riempiendoli direttamente dal rubinetto del lavandino, ed entrambe le volte non ero riuscito a finirli, sentendo attraverso la porta socchiusa la voce dell’infermiera che mi chiamava per una nuova urgenza.
Poco dopo le cinque del mattino, parve esserci finalmente una pausa. In piedi nel bel mezzo del corridoio sul quale si aprivano le stanze dei degenti, mi resi conto, stupito e quasi incredulo, che un silenzio assoluto regnava nel reparto, mentre tra le fessure delle persiane cominciava a filtrare l’alba di un’afosa giornata di luglio. Tutto era tranquillo, i pazienti si erano addormentati, nessuno aveva più bisogno di me.
Ero letteralmente “cotto” dalla stanchezza: lentamente, mi incamminai verso la mia stanza, vi entrai pian pianino, richiusi la porta dietro di me e mi lasciai letteralmente cadere nella poltrona, addormentandomi all’istante.
Quanto avrò dormito?
Ė difficile dirlo: il tempo passa, i ricordi si sfumano… Ma credo di aver dormito solo per pochi minuti, al massimo per un quarto d’ora, quando venni svegliato di soprassalto dall’infermiera, che era entrata addirittura nella stanza – evidentemente io non avevo sentito le sue prime chiamate – e mi strattonava dicendo concitata:
“Venga, dottore, venga subito! Il paziente del letto 10 sta male, respira a fatica…!”
Un attimo dopo ero già in piedi e correvo verso la stanza del malato. Ma non ero ancora vigile e all’erta, la mia era stata una reazione del tutto automatica ed in realtà io stavo ancora dormendo della grossa. Ed infatti si verificò quanto segue.
Come riuscire a descrivervi questo episodio in tutta la sua drammaticità da una parte, e dall’altra in tutta la sua irresistibile comicità? Ora cercherò di farlo.
Allora: piombai nella stanza del paziente, che era seduto nel letto, a capo chino, ed ansimava vistosamente. Rapido, efficiente, premuroso, gli sollevai la camicia sul dorso, mi infilai gli auricolari del fonendoscopio nelle orecchie, gli appoggiai sulla schiena l’altra estremità dell’apparecchio e, facendo segno all’infermiera accanto a me di tacere, dissi, nel silenzio assoluto, una sola parola:
“Pronto?”
Poi tacqui. Ricordo solo il volto del malato rivolto verso di me in alto e all’indietro, e la sua mano con le cinque dita unite assieme agitata sotto il mio naso - lui non era in grado di parlare - che voleva dire:
“Dottore, ma che c….o sta dicendo?”
Assunsi il contegno più dignitoso possibile. Con aria serena e rassicurante, sorrisi e risposi:
“Tranquillo, tranquillo, va tutto bene. Cerchi di respirare, che io le ausculto i polmoni. Stia calmo, penso io a tutto, non c’è alcun problema…”.
Il paziente si tranquillizzò ed io ripresi a fare il medico. Fortunatamente, non si trattava di cosa grave e mezz’ora dopo, praticata la terapia del caso, il malato dormiva tranquillamente. Ma che strizza…

Giuliano Giachino



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