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Trapianto: una chimera?

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11
TRAPIANTO: UNA CHIMERA?
 
 
Pier Luigi Cavalli
  
 

 
 
 
1° Convegno ADOT

                                                      “Un dono per la vita, per tutta la vita e oltre la vita”

                                    Alba, 17 marzo 2001



Premessa.
         Ogni volta che mi si chiede di parlare ad incontri come questo, ritengo doveroso precisare che il mio discorso prende in considerazione soprattutto il trapianto di rene, argomento nel quale mi trovo più a mio agio avendoci avuto a che fare, seppure indirettamente, nel corso della mia professione.
         Questa precisazione mi pare doverosa anche per un’altra ragione. Parlare di trapianto di rene, infatti, mi pone in una situazione di vantaggio, e questo per tre motivi:
  • il primo motivo è che il trapianto di rene è quello che ha la storia più lunga;
  • il secondo è che esso si pone in termini meno drammatici, e quindi consente un discorso più pacato, rispetto al trapianto di altri organi vitali, come il cuore o il fegato, per i quali non c’è ancora il sostegno di una terapia tecnologica sostitutiva efficace a lungo termine. Nel caso del trapianto di rene il dilemma non si pone tra vita e morte, ma tra due qualità di vita, quella del dializzato e quella del trapiantato;
  • il terzo motivo è che il rene è un organo pari, cioè doppio e, per di più, con una quota anatomica e funzionale di lusso.  E’ sufficiente mezzo rene per assicurare una più che soddisfacente funzionalità dell’apparato uropoietico. Questo è un fatto importante perché ha reso e rende possibile il trapianto da vivente.
Dalla preistoria alla storia.
         L’idea del trapianto è antica e non c’è storia senza preistoria. Non mi soffermo in questa sede, anche se la vicenda meriterebbe qualche non banale considerazione, sul noto miracolo dei Santi Cosma e Damiano che a Roma, intorno al 530, trapiantarono la gamba di un etiope nero a favore del diacono Giustiniano, custode della chiesa di Papa Felice IV.
        E siamo ancora nella preistoria dei trapianti d’organo quando, tra la fine del Millecinquecento e l’inizio del Milleseicento, i seguaci di Francesco Bacone della Royal Society of London,
         “preconizzavano i benefici che sarebbero potuti derivare all’uomo dalla sostituzione dei suoi organi avariati con organi sani”.[1]
         E’ soltanto all’inizio del secolo XX che entriamo nella storia reale dei trapianti d’organo. I tentativi cominciano proprio dal rene, ma la prima fase di questa nuova era fu piuttosto barbara, come spesso succede nelle fasi iniziali.
         Nel 1902 Emerich Ullmann relazionava alla Società di Medicina di Vienna sui risultati dei primi trapianti di rene eseguiti sul cane e presentava una capra alla quale era stato trapiantato un rene di cane. L’organo era stato collegato ai vasi del collo, in modo che non potesse essere danneggiato dai movimenti istintivi dell’animale. In nessun caso gli esperimenti ebbero successo.
        Né maggior successo ebbero gli esperimenti condotti nello stesso anno a Lione, su cani e gatti, da Alexis Carrell. A questo medico, che ricevette meritatamente il premio Nobel per le sue ricerche nel 1912, si deve anche la messa a punto di una tecnica chirurgica che consente di collegare i vasi sanguigni, tecnica che viene adottata ancora oggi.
        Carrell proseguì le sue ricerche negli Stati Uniti e nel 1908, per la prima volta, un autotrapianto di reni in una gatta assicurò una lunga sopravvivenza dell’animale, che partorì felicemente due nidiate di gattini, rispettivamente uno e tre anni dopo l’intervento. Sembra che non sia stato l’unico perché altri autori parlano di un analogo trapianto su una cagnetta.
        Prima di proseguire ritengo che siano opportune due parole di chiarimento.
        L’autotrapianto è il reimpianto di un organo nello stesso organismo da cui è stato prelevato.
         Si parla invece di isotrapianto quando donatore e ricevente condividono identica struttura genetica, come avviene nei gemelli monocoriali o negli animali singenici.
         L’allotrapianto, detto anche omotrapianto, è il trapianto fra individui appartenenti alla stessa specie.
         Quando invece lo scambio d’organo avviene tra specie animali differenti, parliamo di eterotrapianto o xenotrapianto.
Per non annoiare l’uditorio accennerò soltanto ai principali risultati degli altri ricercatori che dissodarono il terreno sperimentale dei trapianti d’organo.
         Nel 1906, e ancora a Lione, Mathieu Jaboulay aveva realizzato i due primi eterotrapianti sull’uomo ricorrendo rispettivamente ad un rene di maiale in un caso e di capra nell’altro. Per la cronaca si ebbe in un caso una buona ripresa della diuresi che, tuttavia, non superò le 48 ore.
         Non ebbero maggior successo Unger (1910) e Schonstadt (1913) che ricorsero a reni di scimmia, giustamente considerata più vicina alla specie umana dal punto di vista genetico.
         E, sempre nel campo degli eterotrapianti, è doveroso ricordare il dottor Keith Reemtsma, deceduto nel giugno del 2000 all’età di 74 anni. Nel 1963, quando il trattamento dialitico dei nefropatici cronici cominciava a diffondersi in Europa e il dottor Starzl eseguiva il primo trapianto di fegato, Reemtsma effettuava alla Università di Tulane negli USA dodici trapianti di rene dallo scimpanzé all’uomo. L’iniziativa destò grande interesse, ma purtroppo in quasi tutti i casi questo tipo di trapianto non ebbe successo. Però in una paziente, una donna di 23 anni, l’organo funzionò per ben nove mesi. La paziente morì di infezione ed il rene trapiantato, al riscontro autoptico, non presentava segni di rigetto. Dopo questi deludenti esperimenti per molto tempo non si parlò più di utilizzare lo scimpanzé come donatore di reni.
         Sergei Voronoff, un medico russo, oggi più noto per gli innesti di testicoli di scimmie eseguiti sull’uomo a scopo di ringiovanimento e per aver dato il nome al modo di cucinare una bistecca, nel 1928 propose di eseguire su un paziente uremico terminale il trapianto di un rene che un condannato a morte si era dichiarato disposto a donare volontariamente. L’intervento fu bloccato da un ordine del Procuratore della Repubblica.
         Sarà invece il quasi omonimo Voronoy, anche lui un medico slavo, che nel 1936, a Kiev, eseguirà nell’uomo il primo allotrapianto, cioè un trapianto tra individui della stessa specie, detto anche omotrapianto. In anestesia locale egli trapiantò alla radice della coscia di un uomo, in anuria per intossicazione mercuriale, un rene prelevato da un individuo morto per trauma cranico. L’organo trapiantato non funzionò e il ricevente morì dopo 48 ore. Tuttavia Voronoy non si scoraggiò ed eseguì altri sei trapianti, purtroppo con risultati analoghi.
         Gli anni che seguirono la Seconda Guerra Mondiale furono costellati da una serie impressionante di insuccessi, come spesso accade nel campo della ricerca medica, ma anche da una costanza caparbia e silenziosa che tra l’altro permise di raffinare la tecnica chirurgica e risolvere le difficoltà operatorie. Ad esempio Küss, a Parigi nel 1951, mise a punto la tecnica in seguito adottata universalmente, che comporta la sistemazione del rene nella fossa iliaca del bacino e il collegamento con i vasi iliaci e la vescica.
         Nel 1947, al Brigham Hospital di Boston, Hufnagel Lansteiner e David Hume trapiantarono il rene di un cadavere alla piega del gomito di una giovane donna in coma per insufficienza renale acuta, al decimo giorno di anuria. Il rene trapiantato funzionò soltanto 48 ore, ma la paziente se la cavò perché ebbe una ripresa spontanea della diuresi.
         A Chicago Lowler eseguì, nel 1950, un trapianto di rene da cadavere su una paziente affetta da rene policistico. La paziente sopravvisse ma anche in questo caso il risultato è inquinato dal fatto che il chirurgo asportò soltanto uno dei reni malati: una funzionalità sufficiente alla sopravvivenza fu probabilmente assicurata dal rene residuo.
         Nel 1952, a Parigi, tre équipes eseguirono una serie di trapianti renali. I reni furono prelevati da condannati a morte, nei minuti immediatamente successivi all’esecuzione, o da donatori viventi sottoposti ad intervento chirurgico per lesioni che giustificavano una nefrectomia. Tutti questi e molti altri tentativi, in Europa e in America furono fallimentari.
         In quello stesso anno (1952), all’ospedale Necker in cui lavorava una delle équipes sopramenzionate, venne eseguito il primo trapianto renale tra viventi consanguinei, ad opera di Michon e Hamburger. Un giovane carpentiere di 16 anni presentò una rottura traumatica del rene che dovette essere asportato. In occasione dell’intervento i chirurghi si resero conto che il paziente aveva un rene soltanto, un difetto congenito non frequentissimo ma neanche eccezionale. La possibilità di trattare questi casi a lungo termine con la dialisi era ancora di là da venire. Dopo sei giorni di anuria venne trapiantato al ragazzo il rene della mamma. L’organo iniziò immediatamente e a funzionare e le condizioni del paziente migliorarono drammaticamente, ma dopo 22 giorni sopraggiunse un rigetto e in pochi giorni il ragazzo morì. Teniamo presente che non era ancora stata messa a punto una terapia efficace per questo fenomeno, e il trattamento dialitico dei cronici è cominciato negli anni Sessanta.
         Gli americani fanno risalire il primo successo nel campo dei trapianti di rene al 1954. In quell’anno, al Brigham Hospital di Boston Murray, Merrill e Harrison eseguirono il trapianto di un rene tra gemelli monozigoti. L’intervento riuscì appieno ed ebbe grandissima risonanza. Il trapiantato non soltanto sopravvisse a lungo, ma sposò l’infermiera che lo aveva assistito.
         Negli anni che seguirono l’epopea dei trapianti renali fu una lunga storia di tentativi ed errori che, tuttavia, videro anche espandersi mirabilmente le conoscenze sul sistema immunitario e segnarono la messa a punto di terapie efficaci per prevenire e curare il fenomeno del rigetto le quali permisero di raggiungere gli attuali risultati che tutti abbiamo sotto gli occhi.
I valori etici nel trapianto di rene.
         Se mi sono soffermato tracciare questa carrellata storica che spero non vi abbia annoiato troppo, non è per futile esibizionismo culturale, ma per evidenziare due fatti che mi sembrano rilevanti.
         Il primo fatto è che il trapianto di rene, a differenza di quello di cuore e di fegato, non ha un padre ufficialmente riconosciuto. Negli anni Sessanta esisteva una forte rivalità tra la scuola nefrologica parigina di Hamburger e quella bostoniana di Merrill, per cui negli Stati Uniti si vantò il primato di Murray e, in Europa, si rivendicò la priorità di Michon. Personalmente ritengo che questa mancata personalizzazione del trapianto renale sia positivo perché mette in risalto il fatto che la sua realizzazione nasce dallo sforzo di molte persone. Esse hanno lavorato in paesi diversi, e le innumerevoli sconfitte, amare e sofferte, hanno contribuito alla fine alle vittorie raggiunte anche nel trapianto degli altri organi.
        Il secondo fatto che mi preme di evidenziare è la constatazione di come la storia del trapianto di rene si sia sviluppata lungo tre filoni principali:
  1. il trapianto da cadavere;
  2. il trapianto da vivente;
  3. lo xenotrapianto, quale oggi si ripropone, insieme      con la clonazione terapeutica, più problematica quest’ultima nella sua    realizzazione, legati entrambi a manipolazioni genetiche molto discusse.
         Ciascuno di questi tre filoni si è arricchito di rilevanti valori etici di riferimento:
  1. la pietas, per quanto riguarda il trapianto da cadavere;
  2. l’amore, per quanto riguarda il trapianto da vivente;
  3. il principio di giustizia, per quanto riguarda lo xenotrapianto.
Negli anni a cavallo tra il Sessanta e il Settanta, quando il trapianto di rene e di altri organi vitali otteneva finalmente i primi successi, ci si è trovati di fronte a scelte etiche impegnative, alla necessità di una nuova e sconcertante formulazione della morte e ad una conseguente svalutazione del ruolo simbolico di cui è investito il corpo morto, molto forte specialmente nella nostra cultura di derivazione giudaico-cristiana. La forza delle emozioni suscitate da queste problematiche rendeva e rende tuttora difficile un consenso immediato e generale a quest’approccio terapeutico.
         In quell’epoca, abituati alle caute prese di posizione della Chiesa, molti si aspettavano una opposizione da parte delle autorità religiose cattoliche. Invece fin dall’inizio, sebbene molti siano ancora convinti del contrario, la Chiesa, per voce dei suoi più alti rappresentanti, si schierò ufficialmente senza esitazioni a favore dei trapianti d’organo. Tuttavia una presa di posizione così impegnativa doveva essere avallata da una giustificazione di forte peso morale. Ed ecco la soluzione presentata su un piatto d’argento a credenti e non credenti: la cultura della donazione. Il dono di un organo visto come un sublime atto di amore cristiano per i primi, come un nobile atto di filantropia per i secondi, come un’espressione di pietà, intesa nel senso più nobile, per entrambi.
         La pietà appunto: un sentimento di partecipazione alla sofferenza altrui, religioso in senso lato, ma in cui si possono riconoscere credenti e non credenti, laici e confessionali. Che gli uni lo chiamino carità e gli altri solidarietà non ha importanza. Aveva capito bene questo concetto il poeta Virgilio, ed infatti si parla di “pietas virgiliana”. Oggi usiamo questa espressione per definire quel sentimento che va addirittura oltre la pietà come noi comunemente la intendiamo. Un sentimento che, diventato coscienza, fa accettare la realtà anche se ciò comporta un cocente dolore. Pensiamo, nel caso della donazione a scopo di trapianto, il dolore delle persone care che acconsentono al prelievo d’organo di un loro congiunto.
         A rigor di termini, tuttavia, è soltanto nel trapianto da vivente che si può parlare, a pieno diritto, di donazione, anche se sono in molti a pensare che il dono completamente spontaneo, libero e gratuito sia una cosa rara. Chi dona si aspetta sempre un riscontro, non fosse altro un po’ di gratitudine. Nel campo del trapianto da vivente, poi, la donazione si configura come un “atto supererogatorio”, dicono i filosofi, ossia:
         “…implica un sovrappiù di coinvolgimento affettivo e di impegno etico”[2]
         Chi vi parla ritiene che, sempre restando nel campo dei trapianti da vivente, il dono veramente gratuito possa realizzarsi da genitori a figli e molto più raramente negli altri casi. Tuttavia la donazione gratuita di un organo resta sempre un “atto d’amore”, anche quando è imperfetto. Quando è perfetto, cioè veramente libero spontaneo e disinteressato, diventa un “miracolo d’amore”, che non è la stessa cosa.
         Oggi, come ieri, come tremila anni fa, facciamo un gran parlare di amore, nelle sue mille manifestazioni. Parrebbe esserci amore dappertutto. Ce lo spalmiamo addosso, ci nuotiamo dentro, ma il “miracolo d’amore”, come tutti i miracoli, è una cosa eccezionale, preziosissima e, soprattutto, non commerciabile. Ed è vero che i miracoli si realizzano anche ai nostri giorni, ma non diamolo per scontato: essi, per definizione, sono un privilegio raro.
         Com’è noto la donazione di reni, sia da cadavere che da vivente, si dimostra insufficiente ogni giorno di più a soddisfare le richieste e, nonostante tutti gli sforzi, difficilmente riusciremo a risolvere il problema facendo affidamento soltanto su di essi. La via che si spera possa aprirsi con lo xenotrapianto non è dettata solo da curiosità scientifica ed entusiasmo per il progresso, ma anche dal desiderio di venire incontro alle necessità di tutti. E’ per questo motivo che parlavo di giustizia come valore etico positivo nello sviluppo di questo filone.
         Purtroppo in questo caso esiste un pesante rovescio della medaglia. A parte questioni utilitaristiche di sicurezza che consigliano di procedere con molta cautela per la possibilità di trasmettere nuove malattie all’uomo (i prioni della mucca pazza insegnano), con lo xenotrapianto noi escludiamo gli animali dal nostro universo morale e riteniamo sia un diritto infliggere loro un’infinità di sofferenze per prolungare la vita anche di un solo essere umano. Ci troviamo insomma di fronte ad un paradosso perché proprio un elementare principio di giustizia
         “vuole […] rispettato il diritto al godimento del bene della vita da parte di ogni essere animato.”[3]
Gli antichi greci avevano un termine di difficile traduzione: hybris. Questa parola stava a significare la
         “violazione della misura, cioè dei limiti che l'uomo deve incontrare nel suo essere in relazione con altri uomini, con la divinità e                   con l'ordine delle cose.” [4]
Ogni qualvolta superi la misura del giusto, l'uomo cade nella hybris. Potrebbe essere anche il caso dello xenotrapianto.

La chimera come metafora del trapianto d’organo.
         Tra le tante metafore del trapianto d’organo, quella della chimera mi sembra la più calzante ed anche la più affascinante ed è per questo motivo che l’ho inserita nel titolo di questa mia chiacchierata.
         Dal punto di vista mitologico chimera è il mostro favoloso con corpo e testa di leone, una seconda testa di capra (la capra degli esperimenti di Ullmann e Jaboulay?) sorgente dalla schiena e un serpente come coda.
         Dal punto di vista scientifico chimera è l’organismo i cui tessuti sono geneticamente di due o più specie differenti, quindi con due o più genomi. Thomas Starzl, considerato il padre del trapianto di fegato, definisce “chimera postoperatoria” il paziente che ha ricevuto uno xenotrapianto.
         Dal punto di vista semantico chimere sono le fantasticherie, il sogno irraggiungibile, l’illusione, l’utopia, la speranza, il miraggio. Nel caso del trapianto, è la speranza di ritardare l’arresto della macchina umana, addirittura, come nel caso dei seguaci di Bacone che ho citato, l’utopia di sconfiggere la morte. Il vecchio sogno dei pittori medievali quando rappresentavano la fontana dell’eterna giovinezza o degli alchimisti che cercavano l’elisir di lunga vita.
        In un libro che ho letto parecchio tempo fa c’è un’espressione un po’ barocca, che sembra adottare il linguaggio dei salmi biblici. Essa ha sempre esercitato su di me un forte fascino. L’espressione è: la "cosa dai molti splendori" e, secondo l’idea che allora mi sono fatta, starebbe ad indicare un oggetto di desiderio e di aspirazione, difficile da realizzare, ma in grado di dare significato e valore alla vita. Solo in seguito ho scoperto che nella lingua inglese questa espressione è un luogo comune, una frase fatta ma, secondo me, essa conserva tutto il suo fascino nella traduzione letterale in italiano.
         Molti dei presenti ricorderanno una canzone in voga negli anni Cinquanta. Faceva parte della colonna sonora di un film di grandissimo successo: “L’amore è una cosa meravigliosa”. In italiano il testo della canzone è stato tradotto molto banalmente:
                                                      “Quest'amore è splendido...”
ma il testo originale è:
                                             “Love is a many splendored thing...”
cioè:
                                             “L’amore è una cosa dai molti splendori…”
        Perché, vi domanderete, ho tirato in ballo un argomento così futile? La risposta è che mi piace considerare il trapianto come una cosa dai molti splendori. L’idea che vorrei trasmettere è che il trapianto in generale, e il trapianto di rene in particolare, resterà una cosa dai molti splendori se noi non la trasformeremo in una chimera. La chimera, infatti, è un monstrum, termine che in latino ha doppio significato di cosa mirabolante e di cosa mostruosa, in qualche modo messa in relazione con gli aspetti terrificanti della morte.
         Le sfide che la scienza e l’etica si trovano ad affrontare nel secolo che è appena iniziato sono tremende e affascinanti. Però, incantati dalla chimera del trapianto, non dimentichiamo che è doveroso cercare la soluzione dei problemi ancora irrisolti seguendo anche altre vie: cioè quella della prevenzione e della terapia farmacologica delle malattie che portano al trapianto, vie che oggi purtroppo, almeno per quanto riguarda il rene, mi sembrano condotte in maniera fuorviante.
         Permettetemi di concludere citando ancora una frase di Giorgio Cosmacini:
         “I trapianti d’organo […] costituiscono certamente una grande conquista della scienza applicata, oltre che, in molti casi, dell’umana              solidarietà. Ma, in molti casi, tale vittoria della terapia è anche una doppia sconfitta della prevenzione: quella di non aver saputo                 evitare [o guarire] la malattia che induce la necessità del trapianto nel soggetto ricevente e quella di non aver saputo evitare la                   morte incidentale del soggetto donatore.”[5]

[1] Cosmacini G.: “L’arte lunga. Storia della Medicina dall’antichità a oggi” Pag. 274. Editori Laterza, Bari 1997.
[2] L.Battaglia: “Lo xenotrapianto in un’etica interspecifica”, in L’Arco di Giano, n.21, 1999.
[3] F.Voltaggio: “Il rapporto dell’uomo con gli animali”, in L’Arco di Giano, n.21, 1999.
[4] La definizione è di Aldo Carotenuto.
[5] G. Cosmacini: “Il mestiere di medico”, pag. 166-167. Raffaello Cortina, Milano, 2000.
 
 
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