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1966_1999 - una vita trascorsa nel "mio" Laboratorio Nefrologico

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11
1966_1999 - una vita trascorsa nel "mio" Laboratorio Nefrologico
 
 
Nel 1965, io e miei compagni di scuola, conseguito il diploma da perito chimico, ci trovammo di fronte a due strade: trovarci un lavoro (principalmente nell’industria) o proseguire gli studi iscrivendoci all’università. Chi decise di proseguire gli studi, per sfruttare le conoscenze già acquisite, poteva scegliere la Facoltà di Chimica, oppure quella di Biologia, che in quei tempi incominciava ad offrire sbocchi nei laboratori della sanità. Io optai per la Facoltà di Chimica, che sentivo più affine.

Per i miei genitori, di estrazione molto umile, l’idea di un figlio laureato, che sarebbe stato il primo, sia della famiglia paterna che di quella materna, era un sogno che li avrebbe fatti sentire orgogliosi e realizzati e, per questo, erano disposti ad affrontare ogni sacrificio. Da sempre pronti a viziare il loro figlio unico, mi acquistarono un’automobile che, durante il primo anno di facoltà, mi fece assaporare un senso di libertà ed euforia, poco compatibile con i sacrifici necessari allo studio.

Grazie all’auto, terminate le lezioni, invece di tornare a casa a studiare, potevo offrire un passaggio alla mia compagna di banco di cui ero segretamente invaghito. Per la timidezza e l’insicurezza che mi perseguitavano sin dall’infanzia, invece di dichiararle il mio interesse, giustificavo questa mia disponibilità con la scusa che tanto abitava vicino alla palestra di arti marziali che frequentavo da alcuni anni. Peccato che gli orari dei miei corsi in palestra iniziassero qualche ora dopo averla riportata alla sua dimora.
 
Per non ritornare a casa e poi dover ripartire di lì a poco per la palestra, restavo quindi a bighellonare e a guardare le vetrine delle vie del centro, sino all’ora dell’inizio del mio allenamento. Va detto che in quell’epoca il passeggio pomeridiano, sotto i portici e le vie del centro di Torino, era molto gradevole. Risparmiavo un po’ di benzina, ma la preparazione agli esami certo ne risentiva e, inutile dirlo, come prevedibile per le persone normali, la mia compagna di corso non dimostrò mai di accorgersi della mia infatuazione nei suoi confronti.

L’anno successivo, recatomi in segreteria per l’scrizione al secondo anno, incontrai un compagno di scuola con cui mi ero diplomato, che aveva optato per l’iscrizione alla facoltà di biologia, amico d’infanzia e di giochi nei giardinetti della piazza dove le nostre abitazioni si affacciavano. Mi raccontò che gli era stata da poco offerta la possibilità di lavorare part time in un laboratorio molto prestigioso della Clinica Medica, quello di Ematologia, allora diretto da uno dei colonnelli più autorevoli di quel mitico feudo baronale. La Clinica era ubicata proprio vicino a dove entrambi abitavamo. Lo stipendio era molto modesto, ma la libertà di frequentazione dei corsi universitari, senza continuare a gravare economicamente sulle spalle dei miei genitori, mi sembrò una opzione appetibile. Il mio amico mi disse che, nella stessa Clinica, vi era una specialità emergente con un piccolo laboratorio ove si cercava un tecnico.

Mi presentai, molto intimorito, il giorno successivo in Clinica Medica, chiedendo di poter incontrare il prof. Antonio Vercellone, che mi ricevette con molta benevolenza. Gli chiesi conferma dell’informazione avuta e gli dichiarai, molto umilmente, la mia completa ignoranza di Biologia e Medicina, sicuro di non avere competenze per quell’incarico.
 
Con mio grande stupore mi rassicurò, dicendomi che avrei imparato sul campo e che era sufficiente buona volontà e l’affiancamento di poche settimane al tecnico Domenico Poggio, che avrei dovuto sostituire. Poggio aveva lavorato lì per cinque anni, entrato da studente, esattamente come me, ora lasciava il campo perché, rimasto indietro con gli esami, voleva dedicarsi solo allo studio per il superamento degli ultimi esami mancanti al conseguimento della laurea in biologia.
 
Il prof. Vercellone mi lusingò anche dicendomi che, una volta imparato il lavoro, sarei entrato a pieno titolo e con pari dignità nel gruppo di medici del suo reparto e che sarei stato autonomo nella conduzione del laboratorio, rispondendone solo a lui.
 
Il laboratorio che mi venne mostrato era uno stanzino attiguo alla corsia, di meno di quattro metri per quattro, con un lavandino ed arredi di recupero, molto datati e spartani.
 
Anche il reparto di degenza, sito allo stesso piano, il terzo, era modesto, disponendo di sole quatto camere a tre letti, due per gli uomini e due per le donne, più uno stanzino piastrellato di rosso, affacciantesi sul corridoio, in passato utilizzato per lo sviluppo di lastre radiografiche dai cardiologi e poi magnanimamente ceduto ai nefrologi per i test sull’esordiente dialisi peritoneale.
 
La corsia, diretta da una autorevole caposala, Suor Elisa, ospitava altre camere, di diverse specialità mediche, che condividevano le risorse infermieristiche del reparto.
 
L’armamentario del laboratorio constava, sul tavolino centrale, insieme a vari contenitori pieni di pipette di vetro, di due Ureometri dell’Aira per il dosaggio dell’azoto ureico ipobromitico, che condividevano lo spazio con vetreria varia.
 
Su un armadietto erano appoggiate due vecchie centrifughe ed un colorimetro Bausch e Lomb.
 
Un trespolo stazionava sul davanzale della finestra con uno strano armamentario in vetro, pieno di mercurio, un Van Slyke per la misurazione della riserva alcalina.
 
In un angolo, su una piccola scrivania, un microscopio monoculare di Grifield di color nero, che raccoglieva ancora la luce tramite uno specchietto ad angolazione regolabile, non era di mia competenza. Dedicato prevalentemente alla lettura dei sedimenti, era riservato al dott. Varese ed occasionalmente ad altri assistenti.
 
In un altro angolo, come fiore all’occhiello, troneggiava uno dei primi fotometri a fiamma Baird Atomic, per il dosaggio del sodio e del potassio.
 
Mi raccontarono poi che il predecessore di quel prezioso strumento, dislocato in origine in un locale della Clinica Chirurgica, era stato affidato all’allora neolaureato Giuseppe Piccoli che, nel sostituire la bombola con cui la fiamma era alimentata, non aveva chiuso correttamente il manometro, procurando una fuga di gas, responsabile di un’esplosione che aveva devastato il laboratorio, fortunatamente senza vittime o feriti.
 
Magnanimamente il direttore della Clinica Chirurgica, il Prof Achille Mario Dogliotti, perdonò il contrito allievo, rassicurandolo, già soddisfatto che non si fosse infortunato, consentendo alla carriera del promettente giovane di proseguire senza rallentamenti.

Dal 20 ottobre 1966 iniziai a lavorare nel laboratorio, che era anche l’unico luogo di pausa e socializzazione del personale medico. Questa situazione mi consentì di creare con molti di loro, e con altri che si aggregheranno nel tempo, stretti legami di amicizia.
 
Oltre al prof Vercellone, lo staff medico era costituito all’inizio dal prof. Giuseppe Piccoli, dai dott. Franco Linari, Dario Varese, Pierluigi Cavalli e Roberto Ragni e da tre studenti di medicina del quint’anno: Sandro Alloatti, Giuliano Giachino e Giuseppe Segoloni. Un’infermiera generica, Bincoletto Luisa era a supporto per le tecniche depurative con dialisi peritoneale, allora ancora manuale.
 
Il lavoro in laboratorio all’inizio non era molto impegnativo, ma presto mi lasciai coinvolgere dall’entusiasmo per l’avvio della dialisi dei pazienti in uremia cronica dove, in quell’epoca di pionierismo e poche risorse, anche le mie competenze manuali, acquisite da perito chimico, risultavano molto utili e gradite nell’allestimento della nascente sala dialisi.
 
L’iniziale mezza giornata di lavoro richiesta, e solo nei giorni feriali, incominciò ad allungarsi. Ai giorni feriali iniziarono ad aggiungersi i sabati ed i giorni festivi infrasettimanali. Con l’avvio della dialisi, che si protraeva, con i primi Kiil, per dodici ore a seduta, l’orario di supporto laboratoristico si anticipò al mattino e si posticipò alla sera.

Quest’affezione per la vita del laboratorio e del reparto era tale che, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, in una fase storica di tumultuoso sviluppo della nefrologia, con organico carente, mi aveva portato a sussidiare, dopo la mia attività in laboratorio anche a quella sanitaria, partecipando talora all’apertura e chiusura delle dialisi e persino a fungere, occasionalmente, da assistente chirurgo in camera operatoria, per la predisposizione degli accessi vascolare per la dialisi.
 
Oggi tali attività mi verrebbero giustamente precluse e, se colto a praticarle, condurrebbero in carcere me ed i dirigenti della struttura, ma allora, in epoca pionieristica, ogni sforzo di collaborazione sembrava naturale, senza porsi troppe regole. In questo clima mi sentivo a tutti gli effetti protagonista nella squadra, al pari dei medici più anziani.
 
La paga era sempre la stessa e gli straordinari non esistevano. All’inizio, non essendo ancora maggiorenne, venivo retribuito in nero, con la somma di lire 60.000 che passavo a ritirare in contanti, brevi manu, presso la segreteria dello studio del direttore della clinica, il prof, Giulio Cesare Dogliotti, al primo piano. Solo dopo il compimento del mio ventunesimo compleanno, la busta con le sei banconote da 10.000 lire venne sostituita da un regolare assegno di 59.800 lire, per la trattenuta sul bollo della ricevuta.

Il primo novembre del 1968 fu una data molto importante per me e per la storia della nefrologia torinese, per un episodio allora non divulgato e, per molti anni, noto solo ad una limitata cerchia di vecchi addetti ai lavori.
 
L’episodio viene più ampliamente descritto nel racconto “1_novembre_1968” in questa sezione del sito.

In quella data (festività di Tutti i Santi), avrei potuto non recarmi al lavoro, prevalentemente indirizzato in quel periodo al controllo dei parametri ritentivi ed elettrolitici dei pazienti uremici e dei controlli sui relativi bagni di dialisi
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In sala dialisi i sacchetti ed i flaconcini dei sali necessari alla preparazione in loco del bagno di dialisi provenivano dalla Farmacia Interna dell’Ospedale. Per un errore dell’operaio addetto alla pesata del cloruro di sodio, i sacchetti, etichettati NaCl, furono riempiti di sale proveniente da un bidone molto simile, contenente KCl.
 
In quella mattinata festiva, la soluzione di dialisi fu preparata come al solito dal personale infermieristico della Sala Dialisi. Cinque pazienti si apprestavano ad essere collegati, senza sospetto alcuno dell’imminente catastrofe.
 
Il conducimetro collegato alla soluzione di dialisi, per effetto dello scambio tra ioni, K e Na, di peso equivalente abbastanza vicino, forniva un segnale ancora all’interno dei limiti d’allarme impostati sullo strumento. ma la concentrazione elettrolitica del bagno che stava per essere diffuso, risultando di circa 70 mEq/L di sodio e di 77 mEq/L di potassio, avrebbe procurato la morte dei pazienti quasi contemporanea, per arresto cardiaco, nel giro di pochi minuti dall’avvio della dialisi.

Quella mattina, nonostante il giorno festivo, mi recai comunque al lavoro, trovando gli operatori dialitici che, fiduciosi del dato del conducimetro, stavano apprestandosi all’avvio della dialisi.  Come prima operazione abituale, provvidi al dosaggio degli elettroliti nel bagno di dialisi appena preparato, riscontrando, con stupore, l’anomalia. Dopo un rapido ed affannoso ricontrollo diedi l’allarme e la seduta dialitica fu sospesa appena in tempo ed il sangue dei pazienti rapidamente reinfuso.
 
L’incidente fu discretamente comunicato alla Direzione Sanitaria ed ai responsabili della Farmacia. I sacchetti furono immediatamente ritirati e sostituiti.
 
All’avvenimento non venne data alcuna pubblicità, ma contribuì non poco a farmi vincere la mia insicurezza, almeno professionalmente, ed a farmi sentire, pur nella mia veste atipica, ancor più protagonista in quel gruppo di lavoro.
 
Con il rapido sviluppo della dialisi, anche il laboratorio dovette potenziarsi con l’assunzione prima di una poi di una seconda tecnica. Il locale era divento di misura insufficiente e venne trasferito al piano terreno della Clinica, in un magazzino appena più spazioso che venne svuotato e dove ci trasferimmo per alcuni anni.
 
Quando, nel 1970, lasciarono la Nefrologia della Clinica Medica sia Varese che Cavalli, fu necessario trovare qualcuno che si prendesse carico sistematicamente della lettura dei sedimenti al loro posto.
 
Stante il disinteresse generale dei medici nefrologi rimasti a sostituirli, venne proposto a me di assumermene il compito.
Allora erano inesistenti esaustivi atlanti fotografici sull'argomento ed essendo impossibile procedere ad un serio apprendimento da parte dei due specialisti trasferitisi, restavano solo pochi testi, con schematici disegni e rare fotografie, per aiutarmi a riconoscere gli elementi da segnalare, troppo poco per vincere le mie paure e la mia ritrosia ad accettare il nuovo incarico.

Venni infine convinto, molto a malincuore, ad accettare l’ingrato compito, con la formale promessa che, appena si fossero resi disponibili dei fondi, l’impiego prioritario sarebbe stato quello per l’acquisto di un foto-microscopio, promessa poi mantenuta nel 1973.
 
L’esperienza di lettura dei sedimenti urinari continuò, praticamente in esclusiva, sino al 1999, anno del mio trasferimento, consentendomi una ricca raccolta di immagini fotografiche che ha consentito la pubblicazione di una prima edizione in italiano de "La lettura del sedimento urinario - testo atlante", di G. Piccoli, D. Varese ed M. Rotunno, pubblicato da un'esordiente piccola casa editrice, il "Centro Scientifico Torinese Editore", seguita da un'edizione in inglese, richiesta per gli Stati Uniti dalla "Raven Press Editor, New York", commercializzata nel 1984 col titolo "Atlas of urinary sediments - diagnosis and clinical correlations in nephrology", che risultò essere la prima monografia italiana di argomento nefrologico, tradotta in inglese per il mercato internazionale.
 
Il mio carattere insicuro ed ansioso e la voglia di non sfigurare, m’impose di dedicare all’attività lavorativa tutte le mie risorse, tramutando il laboratorio nefrologico e l’ospedale nella mia prima casa, nonostante abitassi allora con i miei genitori in un appartamento sito ad un isolato di distanza, prospiciente l’ingresso all’ospedale. Uscivo di casa al mattino e vi rientravo la sera, quasi solo per dormire.
 
La mia assiduità in ospedale, per molti anni mi rese primatista assoluto di frequenza alla mensa aziendale, ove pranzavo e cenavo per più di trecento giorni l’anno, sino al giorno, dopo molti anni, in cui lessi in bacheca una circolare dell’amministrazione che vietava di usufruirne per più di una volta al giorno.
 
Ipocritamente, il partecipare da pioniere a quella nascente nuova branca della medicina mi faceva sentire giustificato nel non frequentare più le lezioni universitarie, all’epoca molte delle quali obbligatorie, e nel rimandare lo studio per sostenere gli esami, fermatisi ai primi due, facendomi finire fuori corso già alla fine del primo biennio.
 
Mi riscrissi ancora un anno fuori corso, poi abbandonai la Facoltà di Chimica, iscrivendomi velleitariamente a quella di Biologia, ove si diceva che i corsi obbligatori fossero molti di meno. L’iscrizione alla facoltà di biologia si ripeté successivamente per ben tredici anni, ma gli esami sostenuti, pur con buoni voti, furono ben pochi. Sino all’inevitabile abbandono nel 1978. La delusione che temevo di dare ai miei genitori per la rinuncia alla laurea, procrastinandola così a lungo, era stata sufficientemente stempera e compensata dall’apprezzamento professionale che mi vedevano comunque riservato nell’ambiente ospedaliero. Certamente la rinuncia alla possibilità di carriera professionale ed a stipendi ben più consistenti, lasciò sempre in me ed in loro un inevitabile rimpianto.
 
Il mio rapporto col prof. Vercellone assunse una connotazione particolare anche perché, non prevedendo più di laurearmi, non avevo le possibilità di carriera per cui potessi avvalermi di una sua raccomandazione. Questo status mi consentiva di potermi rapportare con lui senza ipocrisie ed opportunismi, con confronti e, a volte, contestazioni anche molto vivaci, che certo lui non avrebbe potuto tollerare dagli altri suoi collaboratori, consapevoli che la propria carriera era in gran parte determinata dalla valutazione e dalla benevolenza del capo.
 
Fu solo nel 1973 che il laboratorio fece un salto qualitativo, quando il prof. Vercellone riuscì ad ottenere dai Lions Clubs una cospicua donazione che consentì la dotazione di strumenti più sofisticati che intanto lo sviluppo della tecnologia industriale aveva reso disponibili per la sanità. Con quella consistente donazione fu possibile allestire in due locali di fortuna, reperiti al secondo piano della Clinica, due altri piccoli laboratori, uno di Immunopatologia, affidato ad un giovane promettente nuovo arrivato, il dott. Giovanni Camussi, ed uno per lo studio della coagulazione, affidato alla dott.ssa Caterina Canavese, anche lei giunta da poco, che si era appassionata alla materia.
 
La nuova strumentazione acquisita dal laboratorio nefrologico era però troppo sacrificata per lo spazio disponibile. Il prof. Vercellone nel frattempo, anche grazie ai successi della dialisi per l’uremia cronica, era riuscito a farsi destinare un intero nuovo reparto in un piano in cantiere, di sopraelevazione della Clinica Medica, in condivisione con il reparto di cardiologia del prof. Brusca.
 
Ottenuta in visione la planimetria del progetto di sopraelevazione, potemmo suggerire, per la parte destinata al nostro reparto, la suddivisione degli spazi da destinare alla nuova sala dialisi, alla corsia, agli spazi comuni ed anche a quelli per un laboratorio di reparto.
 
Riuscii a farmi destinare l’area sovrastante la colonna delle scale centrali, suggerendo a quel piano, la rinuncia alle stesse, consentendo il passaggio delle funi dell’ascensore, che si sarebbe dovuto arrestare al piano sottostante, attraverso una colonna centrale in muratura al di sotto dell’area di servizio motore dislocata sul tetto. Quell’ultimo piano sarebbe comunque stato servito da altri tre ascensori, ritenuti sufficienti.
 
L’aggiunta di una stanza adiacente a questo locale, avrebbe offerto spazio all’allestimento finalmente di un laboratorio moderno e di tutto rispetto.
 
Il trasferimento di una sala dialisi e del laboratorio avvenne, in maniera un po’ forzata, mentre il cantiere della corsia era ancora in corso. Per raggiungere il laboratorio, all’inizio attrezzato con banchi di fortuna ove appoggiare la strumentazione, occorreva attraversare in cantiere della corsia, coi muri ancora da intonacare e il pavimento ricoperto da assi. Allora fu possibile.
L’entusiasmo per quell’operazione, nonostante le varie difficoltà da superare, mi gonfiava il cuore, alimentando ulteriormente la mia passione e dedizione al lavoro, facendomi sentire ancor più quel laboratorio come la “mia” creatura.

Terminata l’edificazione del quarto piano, con il completamento del trasferimento del reparto e l’avvio e l’espansione del trapianto renale, anche il laboratorio, con l’acquisizione di arredi moderni e nuova strumentazione, via via nel tempo implementata, assunse la sua massima dimensione, contribuendo in maniera determinante alla ricca produzione di pubblicazioni scientifiche del gruppo.

In quegli anni la riorganizzazione della sanità era orientata alla centralizzazione dei piccoli laboratori specialistici, per lo più di origine universitaria, con potenziamento dei servizi del Laboratorio Centrale che ne doveva assorbire e razionalizzare l’attività. Questa operazione provocava talora vivaci conflitti tra i vari direttori dei laboratori da chiudere e la direzione ospedaliera.
 
Nel nostro caso, invece, i buoni rapporti instaurati dall’inizio con il primario dei Laboratori Centrali, a cui venivano sottoposti periodicamente i resoconti dell’attività del laboratorio nefrologico e le ragioni per cui la sua esistenza ritenevo fosse giustificata, collaborando con lui nella scelta e programmazione di nuovi progetti, hanno portato al suo sostegno e ad ottimi rapporti di collaborazione e integrazione, ottenendo anche supporto nella acquisizione di nuova strumentazione.

Nel 1999, dopo il pensionamento del prof. Vercellone, divergenze su scelte del nuovo direttore, pur se non riguardanti il laboratorio, mi indussero a lasciare la Nefrologia, trasferendomi ai Laboratori Centrali, sino al 2004, anno del mio pensionamento.
 
Una revisione delle immagini dei sedimenti raccolte anche dopo il mio pensionamento, ha condotto alla pubblicazione di una ampia raccolta d'immagini, contenuta nell’opera: "Atlante Ipertestuale dei Sedimenti Urinari - Parte Prima: Analisi Morfologica", di Michele Rotunno e Giuseppe Piccoli, prodotto in DVD, nel giugno del 2011, da Edizioni Libreria Cortina Torino.


Michele Rotunno
  
Laboratorio Nefrologico - anni '60-'70
Laboratorio Nefrologico - anni '70-'80
Laboratorio Nefrologico - anni '80-'90
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