1970_1999 - Trent'anni di lettura dei sedimenti urinari, con quel che precede e quel che segue
"1970_1999 Trent'anni di lettura dei sedimenti urinari, con quel che precede e quel che segue"
Nell'Istituto della Patologia Medica Torinese, nell'immediato dopo guerra, la lettura dei sedimenti urinari era eseguita nel laboratorio centrale, su microscopi condivisi tra medici di varie specializzazioni.
Alberto Amerio, dal 1942 primo medico in quell'Istituto, allora diretto dal professor Pietro Sisto, ad orientare il proprio interesse verso le problematiche nefrologiche, ottenne qualche anno dopo un piccolo locale nei sotterranei del padiglione, da adibire a laboratorio dedicato.
In quel vano, nel 1946, uno studente frequentatore, Antonio Vercellone, si cimentò con provette, beute, pipette e matracci, nella determinazione delle clearances del tiosolfato e del PAI, per preparare la sua tesi "Significato ed interpretazione delle Clearances Renali", con cui si laureò nel 1948, dando inizio alla sua prestigiosa carriera di nefrologo, che lo porterà poi a diventare, in quella specialità, il caposcuola torinese apprezzato da tutti.
Alcuni anni dopo, nel 1956, un giovane studente di medicina, Giuseppe Piccoli, chiese un giorno alla sorella, già medico, cosa fossero le clearances e le prove di funzionalità renale. La sorella, pediatra, lo mise in contatto con una sua amica e collega, Maria Grazia Lunnel, che frequentava l'Istituto di Patologia Medica collaborando con Amerio e Vercellone e che, per meglio rispondere al quesito del giovane studente, lo invitò in ospedale a parlare con Vercellone. Questo incontro indusse il giovane a chiedere di poter frequentare l'Istituto per fare il proprio tirocinio in quel gruppo, al quale si era da poco, nel 1955, aggiunto un neolaureato, Franco Linari.
La difficoltà ad accedere liberamente all'uso dei microscopi d'Istituto, indusse Piccoli ad acquistare un piccolo microscopio, con i propri guadagni ottenuti dando ripetizione di latino, mettendolo poi a disposizione nel modesto laboratorio nefrologico.
Esso andò ad aggiungersi allo scarno strumentario diagnostico dell'epoca, affiancandosi all'ureometro di Dall'Aira, per la misura dell'urea ipobromitica, all'apparecchio di Wan Slyke, per la determinazione della riserva alcalina, e ad un primitivo colorimetro Baush & Lomb, per misurare la funzionalità renale con le clearances del tiosolfato e del PAI.
Per dare l'idea del clima spartano del laboratorio si racconta che, in quel locale dello scantinato, privo di riscaldamento, nelle giornate invernali più fredde, capitasse di arrivare al mattino e trovare l'acqua nel bicchiere di raffreddamento dell'ureometro di Dall'Aira trasformata in ghiaccio.
La lettura del sedimento urinario si consolidò nella pratica quotidiana dei nefrologi torinesi con l'arrivo di Dario Varese, nel 1957, che portò la sua esperienza in istologia, appresa da allievo del prof. Mottura, estendendola ai sedimenti fissati su vetrino, colorandoli con la tecnica di Papanicolaou, proseguendo poi la sua ricerca nella preparazione e lettura dei primi campioni bioptici di rene.
Per diversi anni i giovani medici inseritisi in quel gruppo pionieristico, trasferito nel 1958 presso la Clinica Medica col prof. G.C. Dogliotti, si alternarono, affiancando Varese, nella lettura dei sedimenti urinari. Tra questi: Pier Luigi Cavalli, Franco Marullo Reedz, Giorgio Emanuelli, Giuseppe Verzetti e, per ultimo, dal 1964, Roberto Ragni.
Quando, nel 1966, venni assunto come tecnico, per sostituire il dimissionario Domenico Poggio nella gestione della routine del Laboratorio Nefrologico, a lui affidata dal 1961, mi ritrovai in un laboratorio dove la lettura dei sedimenti era allora un evento quasi liturgico, ancora affidato principalmente a Dario Varese, occasionalmente sostituito in quella funzione, da Cavalli o Ragni.
L'urina arrivava in laboratorio in calici graduati di vetro per i pazienti ricoverati o, per quelli ambulatoriali, in barattoli di vetro dalle fogge più varie, riciclati nelle cucine casalinghe, che avevano contenuto precedentemente conserve, marmellate o verdure sott'olio o sott'aceto. Gli attuali contenitori di plastica dedicati non erano ancora neppure immaginabili.
Allora anche i prelievi di sangue venivano effettuati in siringhe di vetro, sterilizzate all'ebollizione, ed il contenuto travasato in provette coniche di vetro, poi tappate con cotone idrofilo per l'invio in laboratorio.
A me venne riservato il più umile compito di eseguire l'esame chimico fisico, utilizzando le prime cartine da poco disponibili in commercio, di misurare la densità, con un picnometro prima ed un refrattometro poi, e di centrifugare i campioni, separando il sedimento dal surnatante, trasferendo quest'ultimo in provette di vetro da batteriologia.
Su queste provette veniva valutata l'entità della proteinuria, riscaldando sulla fiamma di un becco Bunsen la parte superiore dell'urina travasata, acidificandola con alcune gocce di acido acetico. Contro uno schermo scuro, in condizioni d'incidenza di luce ottimali, veniva rilevata la proteinuria col criterio dall'eventuale intorbidamento formatosi, secondo l'allora tradizionale classificazione: negativa, tracce appena percettibili, tracce, veletto, velo, velo netto e dosabile.
Nel caso dell'ultimo stadio si decideva se era il caso di perfezionare la quantizzazione utilizzando i tubi di Esbach, provette graduate di vetro inserite verticalmente in contenitori cilindrici di legno, che consentivano di valutare, dopo 24 ore di sedimentazione, il livello del precipitato sulla scala del tubo nel quale l'urina era stata mescolata con una soluzione di acido picrico.
La valutazione semiquantitativa o quantitativa della proteinuria, da sempre fu affiancata, nel laboratorio nefrologico torinese, al risultato dell'albumina fornito dalle cartine, sin da quando esse si resero disponibili, all'inizio come monotest (albustix), su tutti i campioni cui era richiesto l'esame urine con sedimento.
Con l'evoluzione della tecnologia, alla primitiva valutazione con fiamma ed Esbach, si sostituirono le metodiche turbidimetriche con acido salicilico e, successivamente, quelle colorimetriche al biureto modificato, al blu di coomassie ed al rosso pirogallolo, quest'ultima tuttora in uso.
Quando, nel 1970, lasciarono la Nefrologia della Clinica Medica sia Varese che Cavalli, fu necessario trovare qualcuno che si prendesse carico sistematicamente della lettura dei sedimenti al loro posto.
Il grande impegno che lo sviluppo della dialisi stava richiedendo in quel periodo, l'adozione di nuove e più sofisticate tecniche diagnostiche, che continuamente si rendevano disponibili, certo più interessanti di quella vecchia indagine, e la scarsa propensione che mostravano i nuovi medici nefrologi all'attività di laboratorio, portò alla proposta di affidare a me anche quel compito.
Il proposito venne accolto male dall'interessato, che non aveva sino ad allora esperienza alcuna di quell'indagine, per tradizione pertinenza dei medici. Solo occasionalmente erano stati mostrati anche a me, come curiosità, alcuni dei sedimenti sui quali capitava talora ai medici addetti di disquisire.
Allora erano inesistenti esaustivi atlanti fotografici sull'argomento ed essendo impossibile procedere ad un serio apprendimento da parte dei due specialisti trasferitisi, restavano solo pochi testi, con schematici disegni e rare fotografie, per aiutarmi a riconoscere gli elementi da segnalare, troppo poco per vincere le mie paure e la mia ritrosia al nuovo incarico.
Il microscopio disponibile nel laboratorio Nefrologico era allora un primitivo Grifield monoculare privo di fotocamera, con una lampada che da poco aveva sostituito l'illuminazione a specchio.
Suggerii allora l’acquisto almeno di un microscopio con apparato fotografico, per registrare le immagini per me di più difficile riconoscimento, per poterle sottoporre, almeno saltuariamente, al controllo successivo di un lettore esperto come Varese, ma purtroppo in quel momento non vi erano fondi disponibili da impiegare in quella spesa.
Proposi persino di autotassarci per l’acquisto ma, dopo un attimo di sconcerto, anche questa disperata proposta fu lasciata cadere.
Perdurando l'indisponibilità di altri alla lettura dei sedimenti, venni infine convinto, molto a malincuore, ad accettare l’ingrato compito, con la formale promessa che, appena si fossero resi disponibili dei fondi, l’impiego prioritario sarebbe stato quello per l’acquisto di un foto microscopio.
Solo nel 1973 il prof. Vercellone riuscì ad ottenere dai Lyon's Club una cospicua donazione, che consenti un ammodernamento e potenziamento di tutto il vecchio laboratorio. Quei fondi consentirono anche la nascita di un nuovo laboratorio, denominato di Immunopatologia, affidato ad un giovane medico, ricercatore dal brillante già evidente futuro, Gianni. Camussi, che in nuovi locali di fortuna, a fatica reperiti al secondo piano della Clinica, diede avvio con la nuova attrezzatura, tra le altre innovative ricerche, allo studio dell'immunofluorescenza sulle biopsie renali.
Con il nuovo foto microscopio, condiviso tra i due laboratori, dotato, oltre che di polarizzatore, finalmente anche del dispositivo per la valutazione in contrasto di fase, potei così iniziare a raccogliere documentazione fotografica dei sedimenti letti.
I campioni dei sedimenti con gli elementi più interessanti venivano accantonati in frigorifero e la sera potevo, con calma, tornare a riprepararli per osservarli sul nuovo microscopio e fotografarli, iniziando la costituzione di un archivio di diapositive che si è protratto sistematicamente sino alla fine degli anni '90, e che occasionalmente prosegue tuttora, incrementatosi in parecchie migliaia d'immagini.
Quella raccolta d'immagini, all'inizio portata avanti in un sopraggiunto disinteresse generale, venne nel 1977 mostrata ai due nefrologi che più in passato avevano manifestato passione per la materia, Piccoli e Varese, entrambi da tempo lontani dalla Clinica Medica, inducendoli a collaborare alla presentazione di una rassegna di tali immagini al Corso di Aggiornamento in Nefrologia e Metodiche Dialitiche dell'Ospedale Maggiore S. Carlo Borromeo di Milano di quell'anno.
Una selezione di quasi 200 diapositive venne proiettata in una lezione che, pur debordando non poco dai tempi programmati, suscitò un notevole interesse della platea.
Michele Rotunno (2009)