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Caro agli dei

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Caro agli dèi

         Il ragazzo era ricoverato nel repartino pensionanti della Clinica Medica e la sua mamma era sempre con lui, giorno e notte.

         Non era al suo primo ricovero. Si trattava di un paziente privato del prof. Vercellone che veniva periodicamente per controlli clinici da Ancona dove abitava. Poteva avere diciotto o diciannove anni, non di più, ed era affetto da una nefropatia cronica che stava evolvendo verso lo stato uremico conclamato.

         Me lo ricordo come un ragazzo bellissimo: longilineo, con tratti del viso delicati, occhi azzurri e capelli biondi, ondulati e sottili. Aveva uno sguardo intenso e un modo di fare riservato e tranquillo che ispirava immediata simpatia. Anche la mamma era una bella signora, pur col viso segnato da un'evidente sofferenza, lunga e silenziosa.

         Non c'era da parte mia una grande dimestichezza con questa coppia così discreta perché, addetto ad altre mansioni, seguivo soltanto occasionalmente la visita del Capo quando ricoverava pazienti suoi nel reparto pensionanti. Tuttavia, pur nelle rare occasioni che avevo avuto di parlare con loro, ne ero rimasto così favorevolmente impressionato da tornare spesso a loro col pensiero e da parlarne col capo e coi colleghi.

         Libero da altre incombenze, quel mattino seguii la visita nel reparto pensionanti. Il ragazzo stava male ed era preda di violenti e dolorosi conati di vomito. La madre gli teneva sollevato il capo e lui si premeva un asciugamano sulla bocca nel disperato tentativo di dominare gli attacchi che lo squassavano. Tra uno spasmo e l'altro volgeva lo sguardo verso noi che attorniavamo il suo letto e, con fatica, sussurrava:

         "Scusatemi… scusatemi! Quando sto bene non mi comporto in questo modo".

         Esiste, nell'immaginario comune, una graduatoria di decoro delle patologie croniche. Le grandi malattie dei secoli XIX e XX, cioè la tubercolosi, la sifilide e, più recentemente il cancro e l'AIDS, sono state in qualche modo sublimate e hanno acquisito una loro tragica dignità. L'uremia, invece, è sempre stata negletta forse perché a lungo silente nel suo decorso, forse perché i suoi sintomi, quando si manifestano, sono sgradevoli, oserei dire quasi plebei.

         A molti anni di distanza, quel disperato tentativo di conservare la propria dignità manifestato dal ragazzo in quell'occasione è ancora vividamente impressa nel ricordo. In quel momento eravamo noi medici che avremmo dovuto scusarci per la nostra impotenza, non lui che si ritrovava, vittima innocente e predestinata, nel luogo e nel tempo sbagliati. Non in quella modesta cameretta d'ospedale avrebbe dovuto ragionevolmente trovarsi, ma nel suo ambiente quotidiano, tra i suoi compagni di studio e gli amici e le ragazze, perché la sua era l'età dei sogni, dei progetti e degli amori spensierati e gioiosi. Tradito anche dal tempo perché le armi terapeutiche che avrebbero potuto soccorrerlo non erano ancora in possesso di coloro che l'avevano in cura. Se fosse arrivato pochissimi anni dopo le cose sarebbero andate in modo diverso.

         Alcuni giorni dopo, madre e figlio presero la via del ritorno per l'ultima volta. Non posso sapere quanto sia stata lunga l'agonia ma so, per esperienza professionale, che generalmente la morte in questi casi non ha fretta. E di una cosa sono certo, anche senza averne le prove: il giorno successivo alla conclusione della cerimonia funebre, la madre del ragazzo prese carta e penna e scrisse una lettera al prof. Vercellone più o meno in questi termini:


         "Caro Professore. Abbiamo seppellito ieri il nostro ragazzo. Come può ben immaginare il dolore è immenso, ma mi sono

         di conforto il pensiero che il mio figliolo ha finalmente cessato di soffrire e la certezza che attualmente si trova in un luogo

         migliore.

         Voglia scusare il disturbo che le abbiamo arrecato. So che Lei e i suoi collaboratori avete fatto tutto il possibile e

         di questo vi ringrazio tutti dal profondo del cuore.

         Voglia accettare, caro Professore, i sensi della più profonda… ecc. ecc."

         Ho sempre ritenuto la morte in giovane età, soprattutto nei bambini, un evento contro natura ed è impossibile per me trovarne una giustificazione.

         L'antico poeta e commediografo greco Menandro scrisse che "muore giovane colui che è caro agli dèi". C'è da dire che quando i poeti si impegnano a dire stronzate non sono secondi a nessuno e questo aforisma, che vorrebbe essere consolatorio, è un esempio folgorante di questa mia spero condivisibile affermazione.

         Con quale criterio, mi domando, gli dèi opererebbero la loro scelta? In base alla bellezza? Alla bontà? Al coraggio? All'intelligenza? Considerati i discutibili comportamenti degli abitatori dell'Olimpo, e mi riferisco segnatamente quelli sessuali, c'è da restare alquanto perplessi in proposito.

         Per fortuna - mi si obietterà - gli dèi pagani sono stati sostituiti dall'unico Dio di Abramo, ma questo avvicendamento non ha comportato, nella tradizione cristiana, un mutamento sostanziale di comportamento nella sollecitudine rivolta ai giovani e ai bambini malati. Seguendo una tradizione plurisecolare, il cristianesimo interpreta ancora la malattia come l'imprevedibile e misericordiosa occasione offerta da Dio per espiare i peccati commessi e riacquistare la speranza della salvezza eterna.

         Laicamente, io concordo invece con la scrittrice Susan Sontag che, nel suo noto saggio "Malattia come metafora", scrive:


         "La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa


Gigi Cavalli






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