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Correttore di bozze del GIN

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



In cui si narra di come divenni il correttore di bozze “ufficiale” del Giornale Italiano di Nefrologia



Torino, inizio anni ’80 circa

Un giorno, al termine di una riunione, l’amico e collega R. mi allungò un plico di carte in una busta, dicendomi:
“Giuliano, per favore, dà un’occhiata alle bozze del GIN (Giornale Italiano di Nefrologia).
Ė certamente tutto a posto, ma qualche errore di stampa può essere sempre sfuggito. Riportami il tutto per domattina, perché nel pomeriggio va in stampa”.
Come spesso capitava a quei tempi, avevo improvvisamente ed inaspettatamente trovato il modo di riempire una serata vuota e noiosa (se non fosse abbastanza chiaro, confermo che il significato di questa frase è assolutamente ironico). Ma credo anche che la cosa fosse capitata a me perché era a tutti nota la mia precisione e pignoleria in proposito: una cosa che non sono tenuto a fare, se non mi va di farla, cerco di rifiutarla. Ma se invece accetto di farla, allora cerco di farla proprio bene.
Fu così che quella sera, dopo cena, mi accinsi a rivedere le bozze del GIN alla ricerca di improbabili refusi, con attenzione: era quello infatti il primo numero della rivista che usciva sotto la responsabilità redazionale del gruppo nefrologico di Torino, e tutti noi tenevano molto a che le cose fossero fatte a puntino.
Giunto all’ultima pagina dopo due ore di attenta lettura – leggere con cura alla ricerca di refusi più di un centinaio di pagine scritte a piccoli caratteri su carta lucida non è cosa veloce e rapida – non avevo trovato neppure il più piccolo errore.
Decisi allora di rivedere nello stesso modo e con la stessa cura anche la serie di bibliografie che si trovavano al termine dei vari articoli; e con soddisfazione – devo per onestà ammetterlo – trovai un paio di refusi in lingua inglese: “Qualcuno” avrebbe forse notato che avevo controllato anche le bibliografie.
Sullo slancio, non mi fermai lì, e controllai con cura anche tutte le didascalie delle numerose immagini e tabelle: nulla di sbagliato.
A questo punto, richiusi il plico – si era già a tarda sera – e mi accinsi ad andare a dormire.
Ancora oggi non so quale santo fece sorgere in me, a quel punto, l’uzzolo perfezionista di dare al tutto un’ultima, definitiva occhiata.
Era quasi mezzanotte quando, a circa metà della rivista, qualcosa che non quadrava attrasse la mia attenzione nell’articolo di un collega nefrologo di altra città: un riferimento, nel testo, rimandava alla tabella X, ma la tabella in questione conteneva tutt’altra cosa e dati che non c’entravano per nulla.
Presi ad esaminare una per una tutte le numerose tabelle dell’articolo in questione, piene di grafici e visivamente assai simili tra di loro, e sentii un brivido freddo salirmi lungo la schiena nel momento in cui mi resi conto che, sotto ciascuna delle tabelle c’era una didascalia corretta, ma che si riferiva ad una tabella diversa, che compariva una pagina prima o magari due pagine dopo.
Afferrai convulsamente la cornetta del telefono e chiamai R., anche se mezzanotte era ormai passata da un pezzo. Lo sentii impallidire via cavo mentre gli spiegavo la situazione. All’alba del giorno dopo ero già da lui con il tutto, giusto in tempo per mettere in atto le necessarie correzioni e modifiche prima della stampa.

Commento: tutto è bene quel che finisce bene…
Commento bis: a partire da quel giorno e per lunghissimi anni, quell’ingrato e noioso compito restò – giustamente e meritatamente - appiccicato al sottoscritto come una grossa ameba dotata di potenti ventose. Ma non mi capitò più, neppure una sola volta, di trovare un refuso o un errore grossolani, degni del loro nome, in grado di farti dire: “Tiè, ti ho beccato!”.
Solo qualche piccola cosa qua e là, una piccola virgola ripetuta, una “o” al posto di una “e”, o cosette del genere, che non danno proprio nessuna soddisfazione!

Giuliano Giachino


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