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Enciclica

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Sandro tamquam encyclica
ed anche
110 e lode in rottura di siringhe


Torino, Ospedale Molinette, fine anni ‘60

Mentre salivo gli ultimi gradini delle scale che portavano al pianerottolo del terzo piano e mi avvicinavo alla grande porta a vetri che introduceva al corridoio del reparto di Nefrologia, vidi, attraverso il vetro, il mio collega e coetaneo S.A. passare velocemente. Quando era di fretta – e lo era quasi sempre – Sandro aveva uno stranissimo modo di camminare: tanti piccoli passi in sequenza rapidissima, che facevano sì che egli si muovesse con notevole velocità, pur senza correre.
Mentre appoggiavo la mano sulla maniglia della porta a vetri ed iniziavo ad aprirla – Sandro a quel punto era già scomparso alla vista oltre l’angolo del corridoio – vidi sopraggiungere, ansante e sudata, la caposala del reparto, la famosissima e temutissima Suor Elisa, tutta protesa in un vano inseguimento: già avanti negli anni, non obesa ma comunque di una ragguardevole stazza, il suo tentativo di raggiungere Sandro non poteva avere alcuna probabilità di successo.
Con questa Suora intelligente e dalla fortissima personalità, i miei rapporti erano sempre stati men che mediocri. Un po’ perché lei aveva un carattere difficile e scorbutico, un po’ perché un carattere difficile ce l’ho pure io, forse anche un po’ perché lei era una suora ed io un laico dichiarato, fatto è che tra di noi c’erano rispetto e collaborazione, ma non simpatia: anche se mi pare giusto sottolineare che se io ero – e sono ancora adesso – eccessivamente reattivo, lei era invece decisamente autoritaria, cosa che io non sono proprio mai stato.
Tanto per fare un paio di esempi, il giorno in cui conseguii la laurea in Medicina e Chirurgia, il 28 novembre 1968, terminate che furono, in via Verdi, l’interrogazione e la cerimonia, subito feci ritorno in ospedale, a lavorare, anche se a malincuore. Ma l’Alighieri dice, come tutti sappiamo: “Vuolsi così, colà dove si puote ciò che si vuole”, e quindi…
Ero, naturalmente, molto emozionato, e ad un certo punto una siringa mi sfuggì di mano e si fracassò in mille pezzi sul pavimento: era una di quelle vecchie siringhe in vetro che si usavano a quei tempi – quelle che, per intenderci, trasmettevano l’epatite B – accessoriata con aghi che, sottoposti da Suor Elisa, per ragioni economiche, ad un forsennato riutilizzo, erano diventati un po’ per volta dei veri e propri ami da pesca che piantavi nella vena del paziente e poi non riuscivi più ad estrarre poiché si erano agganciati da qualche parte. Sostituirli con dei nuovi? La risposta della Suora a questa mia richiesta era sempre stata un lungo sguardo di malcelato disprezzo.
Dunque – come dicevo – la siringa mi sfuggì di mano, cadde a terra, e si sbriciolò. La Suora accorse ed iniziò – aiutata dal sottoscritto, contrito e mortificato – a raccogliere i frammenti avvolgendoli in una garza. Quando ebbe terminato l’operazione si rialzò in tutta la sua statura – che non era molta –, mi lanciò un fiero sguardo di riprovazione e, senza gridare ma con voce forte e chiara, in modo tale da poter essere udita in tutto il reparto, mi disse:
“Caro il mio dottore, stamane lei non si è laureato in Medicina, ma in rottura di siringhe!”.
Il noto iper-reattivo dottor Giachino tacque, semplicemente, ed ingoiò: tra i tanti difetti, ho anche la dote – posto che dote sia - di non reagire per nulla nelle occasioni in cui la reazione, se messa in atto, sarebbe stata cataclismica.
Suor Elisa aveva inoltre l’abitudine di scomparire sistematicamente per ragioni mai accertate – mangiare, riposarsi, recitare le sue orazioni?  - ogni giorno dalle 14 alle 16. Ed in queste occasioni, prima di allontanarsi, chiudeva accuratamente, con una chiave che portava sempre con sé, l’armadietto dei medicinali, rendendoli inaccessibili ai medici, anche in caso di urgenza, sino alla sua ricomparsa. Le mie proteste per questo fatto, volte ad ottenere l’accessibilità all’armadietto in questione anche nelle ore fatidiche – più di una volta mi ero trovato in difficoltà non potendo praticare d’urgenza a qualche paziente la terapia necessaria – erano sempre cadute nel vuoto e nell’indifferenza più assoluti.
Risolsi il problema calandomi nella sua psicologia e sforzandomi di vedere la cosa dal suo punto di vista. Così, un giorno, la presi da parte e, con l’aria più serafica e melliflua che riuscii a tirar fuori – cosa non facile, per uno come me – le dissi qualcosa come:
“Carissima Suor Elisa, ma Lei si rende o no conto del fatto che, se un giorno un paziente muore perché non gli si è potuta praticare la necessaria terapia d’urgenza, dato che l’armadietto è chiuso a chiave, Lei in Paradiso proprio non ci mette piede?”
Miracolo! Da quel giorno in poi l’armadietto rimase sempre, a tutte le ore del giorno e della notte, non dico aperto, ma addirittura spalancato.
Tornando a bomba, dicevo che, aprendo la porta, vidi Suor Elisa arrancare inutilmente dietro a Sandro ed arrestarsi ansante proprio davanti a me.
Ho l’immagine ancor oggi stampata nella mente: ma prima di proseguire è necessario che io vi informi del fatto che erano quelli i tempi dell’Enciclica “Popolorum Progressio” di Papa Paolo VI°, che, con i suoi contenuti progressisti ed innovativi, aveva lasciato assai perplessa la nostra Suora. Tempi in cui la Chiesa era protesa in avanti, a scrutare il futuro, e non ancora ingessata e raggrinzita.
Suor Elisa, dunque, si fermò davanti a me, constatata l’impossibilità di raggiungere Sandro, mi guardò per un attimo senza dire nulla – un laico come me non meritava i suoi commenti -, poi si volse per ritornare da dove era venuta, ma troppo lentamente, poiché io la sentii borbottare tra sé e sé:
“Il dottor A. è proprio come un’Enciclica del Papa…”
Rimasi veramente sorpreso. Dopo un attimo, con una punta di malizia, non usai il termine “suora”, e le dissi:
“Sorella, e perché?”
La sua risposta, pronunciata adagio e con aria rassegnata, è ormai per sempre consegnata agli annali e alla storia:
“Si fa così tanta fatica a stargli dietro!”


Giuliano Giachino


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