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I 17 armadi

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



I diciassette armadi del dottor Giachino



Torino, Ospedale Nuova Astanteria Martini, maggio 1981

Quando, nel dicembre del 1979, passai da assistente ad aiuto di Nefrologia, mi trasferii dall’ospedale Molinette alla – allora si chiamava così – Nuova Astanteria Martini: entrambi i nosocomi facevano infatti parte del cosiddetto “Ospedale Maggiore di San Giovanni Battista e della Città di Torino” ed i concorsi erano pertanto interni e comuni alle due strutture.
Presi servizio presso la mia nuova sede lavorativa in un giorno che non ricordo con precisione, ma posteriore al 26 dicembre, che fu il mio ultimo giorno di servizio alle Molinette (come comprovato da una serie di foto ricordo scattate da qualcuno con una Polaroid, vedi sopra), ed anteriore alla fine dell’anno. Arrivai al Servizio Dialisi – uno strano prefabbricato piazzato nel bel mezzo del cortile dell’ospedale e non collegato con esso, di modo che, quando pioveva, era giocoforza bagnarsi tutti percorrendo di corsa una ventina di metri all’aperto – trascinandomi dietro una grossa valigia, piena al punto di scoppiare di riviste e testi scientifici vari.
Venni accolto dai colleghi e dagli infermieri con calore e simpatia e rapidamente mi ambientai, ma subito potei constatare quale fosse il grosso problema del reparto, per il resto bellissimo e funzionale: la ridottissima disponibilità di spazio.
Qualcuno – credo il dottor R* – mi cedette metà della sua scrivania e acconsentì a dividere con me il suo armadietto, in modo che io potessi ambientarmi più facilmente ed iniziare il mio lavoro in serenità. Ma per i miei libri e le mie riviste – quelli contenuti nella famosa valigia - proprio non si trovò dove metterli: tutti gli armadi, i cassetti, i ripostigli del reparto erano già stracolmi di cose altrettanto importanti. E così essi rimasero nella valigia, posata per terra di fianco alla scrivania, per un certo periodo di tempo.
Sarà passato all’incirca un mese, e si era quindi nel gennaio del 1980, quando stabilii che il problema andava in qualche modo risolto: mi recai pertanto all’Ufficio Economato e chiesi se era possibile ottenere un armadio ad ante scorrevoli da piazzare da qualche parte nel reparto, allo scopo di ospitare i miei libri.
Ricordo che l’atteggiamento dell’impiegata e la sua risposta furono per me raggelanti, o almeno io – allora - li trovai tali: infatti il sottoscritto non aveva ancora alcuna esperienza circa i rapporti con gli Uffici, non importa quali (tecnico, economato, personale, provveditorato, fa sempre lo stesso) di un qualsiasi ospedale. Ma in seguito avrei visto in altre sedi ben di peggio e di più disperante.
La gentilissima signorina che mi trovai davanti, infatti, mi guardò come se le avessi chiesto come minimo un’astronave e ribatté un qualcosa come:
“Un armadio? Un armadio? E ad ante scorrevoli? E dove lo troviamo un armadio ad ante scorrevoli?”.
“Beh, lo comprate!”.
“Comprarlo? Ma si rende conto di cosa dice, dottore? Un armadio ad ante scorrevoli? Ma lo sa che i fondi sono finiti? Finiti! E poi, anche se ci fossero i soldi, cose come degli armadi si comprano non uno per volta, ma a gruppi di dieci o venti almeno! E bisogna fare la gara d’appalto, lei lo sa quanto costa una gara d’appalto?”.
Provai a dire che, chissà, forse poteva esserci, in fondo a qualche magazzino dell’ospedale e dimenticato da tutti, un vecchio armadio già usato e dismesso, io mi sarei accontentato anche di un qualcosa di impolverato e arrugginito, purché potesse ospitare i miei libri…, ma senza esito alcuno. Il massimo che potei ottenere fu la vaga promessa che, in futuro, se si sarebbero trovati dei soldi, forse, chissà, magari mi avrebbero accontentato, ma “quando” era assolutamente impossibile stabilirlo.
L’impiegata arrivò addirittura a precisare:
“Guardi dottore, faccia così. Intanto compili l’apposito modulo di richiesta e ce lo faccia avere: senza quello non si può far nulla. Poi, ogni tanto, rinnovi la sua richiesta, sempre per iscritto, diciamo una volta al mese, solo perché la cosa non venga dimenticata, sa, con tutte le cose che ci sono da fare… Vedrà che presto o tardi la accontenteremo…”:
Ritornai in reparto rimuginando tra me e me, assolutamente convinto che si sarebbe potuto fare in proposito qualcosina in più. E sull’onda di quella insoddisfazione interna, decisi che avrei messo pignolescamente in atto proprio tutto ciò che l’impiegata mi aveva suggerito.
Presi il fatidico modulo “Rich.Econ./Modello237/c” e lo compilai su per giù in questi termini:
“Torino, 30/1/1980. Richiesta n° 483. All’Ufficio Economato dell’ospedale Nuova Astanteria Martini si richiede, per il Reparto Dialisi: n° 1 armadio metallico laccato bianco o anche altro colore, ad ante scorrevoli, di altezza circa metri 2, larghezza circa metri 3, spessore circa cm.35, dotato di vari ripiani e destinato a contenere libri”, e lo spedii a destinazione.
Poi, nella stessa data di ogni mese, ripetei la medesima operazione, ricopiando pari pari la scritta ed aggiungendovi in fondo:
“La presente richiesta come sollecito delle precedenti richieste aventi il medesimo oggetto, numero 483, 484, 485, 486, eccetera, eccetera, speditevi nelle date… e tutt’ora inevase”. Il tutto veniva pinzato con una graffetta alle fotocopie delle richieste inevase dei mesi precedenti e inoltrato all’Ufficio Economato: ed ogni mese il plico cresceva così di un nuovo foglio.
Continuai a questo modo per diverso tempo, perdendo progressivamente ogni speranza e quasi dimenticandomi del problema: avevo ormai imparato – ogni volta che mi era necessario - ad aprire la valigia di fianco alla scrivania, frugarci dentro, scovare il testo che mi serviva, consultarlo avvertendo chiunque entrasse perché non inciampasse nella valigia aperta sul pavimento, riporre il testo e richiudere infine il bagaglio rimettendolo diritto in modo da non ostruire il passaggio.
Quanto accadde in seguito mi permette tuttavia di stabilire con esattezza che la mia pervicacia durò esattamente sedici mesi, non uno di più, non uno di meno.
Una sera del maggio 1981, infatti, ero di guardia nel reparto. Già imbruniva ed io ero il solo medico presente, mentre gli infermieri stavano terminando il secondo turno delle applicazioni ed i pazienti, uno dopo l’altro, cominciavano a far ritorno a casa alla spicciolata. Ad un tratto vidi dalla finestra – si era al piano terra – passarmi lentamente davanti al naso un qualcosa che di lì non avrebbe proprio mai dovuto passare: nientemeno che un grosso TIR che si muoveva a fatica all’interno dell’angusto cortile su cui il nostro reparto si affacciava. In sequenza: lo vidi fermarsi proprio davanti all’ingresso; vidi che ne scendeva un camionista corpulento dall’aria seccata e con in mano un foglio spiegazzato; mi resi conto che veniva proprio da noi.
Incuriosito, mi avviai alla porta e, aprendola, me lo trovai davanti. Lui mi mise sotto il naso il foglio che aveva in mano e disse:
“Ėlei il dottor Giachino?”
“Sono io”
“Bene, dottore”.
E poi, indicando il TIR con l’altra mano:
“Lì ci sono i suoi diciassette armadi”.
Rimasi come folgorato, comprendendo tutto in un istante. Per sedici mesi avevo rinnovato la medesima richiesta di un armadio, ogni volta allegando la fotocopia delle precedenti richieste inevase: e sedici solleciti più la richiesta iniziale di un armadio facevano esattamente diciassette armadi!
Al camionista riuscii solo a dire, con tono accorato:
“Ma io di armadi ne voglio solo uno!”
Lui mi guardò strano, aggrottando le sopracciglia, e ribatté:
“Dottore, quanti armadi le servono, a me proprio non interessa. Io so solo che devo consegnarle diciassette armadi metallici laccati bianchi…”
Lo interruppi e proseguii:
“…ad ante scorrevoli… senta, non può proprio darmene uno solo?”
Lui mi allungò il foglio ed io lo presi automaticamente. Poi si avviò verso il suo TIR aggiungendo in tono conclusivo:
“Firmi lì per ricevuta, che intanto io li scarico”
Mi precipitai al telefono e chiamai convulsamente il Capo, a casa sua, spiegandogli la situazione:
“…capisce, me ne hanno mandati diciassette! Dico diciassette! Che cosa devo fare?”
Con voce calmissima, ma in cui vibrava una nota di divertimento, il Capo rispose:
“Prenderli tutti, naturalmente, dottor Giachino! Tutti, li prenda tutti!”
E così fu. Si scovarono nel reparto nicchie insospettate, angoli nascosti, recessi ignorati da tutti ove almeno dieci armadi poterono venir sistemati. Ma anche gli altri trovarono una loro degna sistemazione: la notizia infatti fece in ventiquattro ore il giro di tutto l’ospedale, e due giorni dopo cominciarono ad arrivare, dagli altri reparti, telefonate di questo tipo:
“Caaaro Giachino! Ciao, ciao, come va? Spero tutto bene! Ho saputo dei tuoi armadi… Non è che ve ne è avanzato uno? Noi della Radiologia ne avremmo proprio un gran bisogno…”
Oppure:
“Chiamo dagli Ambulatori Centrali, non è che uno degli armadi del dottor Giachino potete darlo a noi, non sappiamo più dove mettere la roba…”
, e così via.
Signori, tutti furono accontentati, a nessuno venne negato il suo armadio. Neppure al Direttore Sanitario in persona, che qualche giorno dopo mi chiamò al telefono e mi disse con voce serissima:
“Dottor Giachino, senta un po’, sono venuto a conoscenza della storia degli armadi…”
Stavo per rispondergli che non era colpa mia, che io non ne potevo nulla, era uno sbaglio fatto da altri, eccetera, eccetera, ma lui mi precedette, fugando la mia apprensione:
“Tranquillo, dottor Giachino, non ho alcun rimprovero da farle. Solo che.. sono Direttore Sanitario di questo ospedale da alcuni anni, e non ho ancora un armadio nel mio studio.. Mi regala l’ultimo dei suoi?”.
Et voilà! Anche l’ultimo armadio venne sistemato!

Giuliano Giachino



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