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I tre moschettieri

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



I tre moschettieri della dialisi
ed anche
Un dubbio amletico: qual'è Segoloni e qual'è Giachino?




Torino, Ospedale Molinette, dal 1965 al 1975

Mi rendo chiaramente conto, nell’iniziare a scrivere, del fatto che narrare di avvenimenti così lontani nel tempo e così legati alla propria esperienza personale presenta il rischio di limitarsi ad illuminare solamente un piccolo spicchio, un angolo di pochi gradi su ciò che è realmente avvenuto e sull’atmosfera in cui è avvenuto, in definitiva il rischio di poter destare un limitato interesse in chi legge e non ha preso parte diretta in ciò che si narra. Purtroppo è veramente così: le esperienze di ciascuno di noi sono, nella loro parte più autentica e vera, esclusivamente nostre e personali, difficilmente e solo vagamente comunicabili a terzi nel loro nocciolo duro, più sentito e vissuto dentro di noi.
Sia come sia, questi fatti sono stati importanti per me (e credo proprio non solo per me), e provo quindi a parlarne.
Allora, la storia della Nefrologia piemontese, per me, può essere divisa in due parti: c’è un prima ed un dopo. Prima, ci sono il Grande Capo, i capi più piccoli, i colleghi di poco più anziani, quelli da cui abbiamo imparato il mestiere, alcuni gradevoli, altri meno, tutti sempre severi ed esigenti nei nostri confronti. Dopo, ci sono i colleghi più giovani, di poco o di molto, quelli che sono giunti in nefrologia dopo di noi e con noi hanno lavorato e collaborato per pochi o per molti anni. Ed in mezzo – avrete notato che sto parlando al plurale – ci siamo noi tre.
Mi par già di sentire i vostri commenti ed i vostri pensieri: “E chi sarebbero poi questi tre?”. Beh, potete vederci nelle foto poste all’inizio di questa storia. Noi siamo stati, come ebbe a definirci molto tempo dopo, dal palco di un congresso degli anni ’80, il professor Antonio Vercellone, “I tre moschettieri della dialisi”. In ordine semialfabetico: il dottor Sandro Alloatti, il dottor (allora, oggi professore) Giuseppe Paolo Segoloni ed il sottoscritto dottor Giuliano Giachino.
Sono sempre stato e sono tutt’ora convinto che ci siano al mondo poche persone così diverse tra di loro. Tutti e tre eravamo capaci, volenterosi, desiderosi di apprendere e di far bene. Ciascuno di noi aveva poi – come tutti – i propri limiti e difetti, ma il caso volle che in quell’epoca irripetibile, ciò che mancava ad uno dei tre fosse posseduto in forte dose dagli altri due, di modo che, quando si era tutti e tre assieme, non c’era problema o difficoltà che non si potesse in qualche modo superare.
Io ammiravo Sandro per la sua genialità ed il suo entusiasmo, Beppe suscitava in me un’immediata empatia sia per la sua determinazione e la limpida onestà intellettuale, sia per il suo modo di porsi, forse un po’ spigoloso, ma all’interno di una certa indefinibile ed affascinante aura di mistero. Cosa loro vedessero in me, non lo so e non tocca a me dirlo: ma qualcosa dovettero vedere, se i nostri rapporti furono, come furono, sempre e costantemente limpidi, collaborativi e leali: ricordo di aver litigato con Sandro una sola volta, per motivi assolutamente banali, e con Beppe neppure quella.
Tra il 1965, anno in cui giungemmo tutti e tre, nell’arco del mese di Ottobre, in Nefrologia, ed il 1975, anno in cui il primo di noi, Sandro, lasciò le Molinette per la Nuova Astanteria Martini, vivemmo assieme una stagione irripetibile, che creò e consolidò un’amicizia destinata a non morire mai.
Sì, è vero, negli ultimi anni le nostre frequentazioni si sono diradate per tante diverse ragioni: Sandro ed io siamo già in pensione dopo esserci spostati presso altri ospedali, mentre Beppe è tutt’ora in attività; sento periodicamente ancora Sandro per telefono o via email (uno dei suoi figli lavora in Germania come il mio, sua moglie Barbara, svizzera di lingua tedesca, corregge i miei testi in quella lingua); Beppe lo vedo assai raramente, incontrandolo a qualche convegno, ma ogni volta che lo vedo è per me (e per lui) un vero piacere. L’amicizia è una cosa che va decisamente al di là della semplice frequentazione.
Ed ora, esaurito questo argomento un po’ serio, ma di cui non potevo tacere, sia perché sentivo il bisogno di parlarne, sia perché rappresenta lo “sfondo” di quel che segue, è giunta l’ora di farvi sorridere un poco, che è poi lo scopo principale di queste mie storielle.
Si dà il caso che, nei primissimi mesi della nostra frequentazione del reparto di Nefrologia – diciamo tra l’Ottobre 1965 ed il Marzo 1966 – il nostro Grande Capo, cioè il professor Vercellone, sapesse perfettamente chi fosse il dottor Alloatti, mentre invece continuava a confondere Segoloni con Giachino e Giachino con Segoloni: e questo fatto era all’origine di un certo disappunto da parte nostra (ciascuno desidera essere chiamato con il proprio nome…) e di una infinita serie di disguidi e qui pro quo con i colleghi, gli infermieri e tutto il resto del personale. Per esempio, il Capo diceva a qualcuno: “Si rivolga a Giachino, lui è aggiornato su questo argomento”, e la persona aggiornata era invece Beppe; oppure: “Ho incaricato Segoloni di fare questa cosa”, ed invece l’incaricato ero io…
Sorvolo qui, sfiorandolo appena, sul motivo di questo suo continuo invertire i nostri cognomi, mai accertato chiaramente, ma che il Grande Capo stesso un giorno si lasciò sfuggire di bocca per poi subito negare quel che aveva appena detto: era naturale per lui che io, di molto più magro di Beppe, fossi quello che faceva le cose che erano invece suggerite dal suo cognome…
Bene, un giorno io e Beppe ci appartammo, stanchi di questo andazzo, per alcuni minuti, e decidemmo che il problema andava risolto una volta per tutte, concordando un piano “ad hoc”, tale da far capire al Capo chi fosse l’uno e chi fosse l’altro, senza tuttavia offenderlo o mortificarlo in presenza di terzi (il Grande Capo era molto suscettibile a questo tipo di cose…).
La mattina dopo, Beppe aveva appena fatto il suo ingresso in reparto, che il Grande Capo gli fece un cenno con la mano verso il suo studio, dicendo: “Venga, Giachino, venga, le devo parlare…”, e subito Beppe lo seguì, rispondendogli: “Eccomi, professor Brusca
(1),sono a sua disposizione…”.
La cosa lasciò il Capo piuttosto interdetto, ma sembrò finire lì. Ce l’avevamo fatta? Neanche per sogno! Dieci minuti dopo, lo vidi dirigersi verso di me lungo il corridoio della corsia. Mi posò una mano sulla spalla con un’aria quasi (davvero!) affettuosa e mi disse: “Caro Segoloni, ma lo sa che il suo amico Giachino è proprio permaloso? Pensi, ho sbagliato il suo nome, e lui mi ha dato del Brusca!”.
Impassibile, replicai: “Davvero? Non posso proprio crederci, professor Gavosto
(2)!”.
A questo punto il Grande Capo si allontanò in silenzio senza dire nulla, e – potete crederci o meno – si chiuse nel suo studio dando due giri di chiave. Ne uscì un’ora dopo, e da quel momento Giachino fu per sempre Giachino e Segoloni per sempre Segoloni.

Giuliano Giachino


(1 e 2)
Il professor Brusca ed il professor Gavosto erano allora, assieme a Vercellone, altri due Aiuti del professor GCD, il cattedratico che dirigeva l’intiero Istituto di Clinica Medica dell’Università di Torino: il primo era responsabile del settore cardiologico ed il secondo di quello di ematologia.


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