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Il vampiro della dialisi

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Il vampiro della dialisi





Torino, Ospedale Molinette, nel corso degli anni 1970 e 1971

A cavallo del 1970 e del 1971, al sottoscritto, medico frequentatore volontario del reparto di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale Molinette di Torino, venne affidata, da parte di alcuni colleghi più anziani, l’effettuazione di una serie di sperimentazioni tecniche su uno dei primi reni artificiali “disposable”, cioè a dire “usa e getta”, utilizzati presso il reparto.
Si trattava di un filtro di un modello chiamato “coil”, detto anche “a rotolo” (vedere la foto sopra), di cui non ricordo più il nome esatto, che veniva posto all’interno di una specie di vasca facente parte di un monitor della ditta T*, dotato di una pompa che spingeva il liquido di dialisi all’interno del rotolo stesso, portandolo così a contatto, attraverso la membrana dializzante arrotolata su se stessa, con il sangue del paziente.
Questo nuovo tipo di rene artificiale presentava l’enorme vantaggio di essere “disposable”, risparmiando al personale la notevole quantità di lavoro resa necessaria dai precedenti modelli più antiquati utilizzati sino ad allora, come, ad esempio, quello di Kiil, detto anche “a piastre”, che doveva, tra una utilizzazione e la successiva, venire smontato, lavato, rimontato, sterilizzato con formaldeide, testato a pressione ed infine lavato accuratamente per allontanare ogni traccia di disinfettante (vedere a questo proposito il racconto: “In cui si narra di un giovane medico e di un famoso professore…”).
A fronte di questo indubbio vantaggio, tuttavia, questo filtro a rotolo presentava anche alcuni inconvenienti. Primo, il volume interno del suo comparto ematico era assai più grande e, secondo, la membrana dializzante in esso contenuta era particolarmente fragile e si rompeva nel corso delle applicazioni con una frequenza maggiore di quella del pur antiquato rene di Kiil.
Quando queste rotture della membrana dializzante si verificavano, il sangue del paziente – sottoposto ad una pressione maggiore di quella del liquido sul lato opposto della membrana – si spandeva nel liquido stesso (ed allora non c’erano apparecchi di sicurezza che lo segnalassero, l’allarme era lanciato “a vista” dal primo che scorgeva i tubi trasparenti del liquido di dialisi diventare rossi). E allora non c’era altro da fare che interrompere di corsa l’applicazione cercando di reinfondere nelle vene del paziente quanto più sangue possibile, per poi ricominciare una nuova applicazione con un nuovo filtro. Una parte del sangue andava comunque sempre perduta, ed i nostri pazienti erano già di per sé anemici per via dell’insufficienza renale cronica da cui erano affetti…
In definitiva: con una membrana dializzante più fragile ed un volume ematico intermo maggiore, l’incidente sopra descritto assumeva, con il nuovo filtro, un’importanza decisamente più grave.
Proprio per fare il punto su questo problema, il sottoscritto venne incaricato di effettuare i test tecnici cui ho accennato, stressando – naturalmente nel corso di dialisi simulate senza paziente – il sistema a pressioni elevate, e registrando i livelli di pressione e di flusso ai quali la rottura si verificava più frequentemente. Tra l’altro, i risultati di questi miei test vennero presentati con un poster al Congresso dell’EDTA (Associazione Europea di Dialisi e Trapianto) del 1971 a Berlino Est, e quindi pubblicati nei relativi atti sotto il titolo di "Ultrafiltration characteristics of dialyzers in relation to type and construction". Proceedings EDTA 8, 421,1971.
Ed a proposito di questo tragico poster ed ancor più tragico congresso, leggete il racconto: “Die Macht des Schicksals”, ovvero “La forza del destino”, e vi farete quattro risate.
Le mie sperimentazioni si svolgevano all’incirca in questo modo. Il sottoscritto, completamente ricoperto e reso simile ad un tragico fantasma da camicione bianco, soprascarpe, guanti, mascherina, cappellino ed occhiali, si rinchiudeva per il tempo necessario in una apposita stanza messa a mia disposizione, e lì, in solitudine, effettuava con il monitor ed il filtro incriminati una lunga serie di applicazioni simulate, facendo circolare nei relativi circuiti liquido di dialisi autentico e sangue scaduto ed altrimenti inutilizzabile, messomi cortesemente a disposizione dalla Banca del Sangue dell’ospedale. Tengo a precisare che gli accordi necessari ad ottenere questa fornitura ematica non furono presi dal sottoscritto, che – benché già laureato – non era ancora stato assunto e lavorava quindi come semplice medico frequentatore, ma da altra persona.
Qualcuno di voi improbabili lettori si domanderà, a questo punto: ma perché tutta questa bardatura e messa in scena? Semplicemente perché le rotture di membrana che provocavo appositamente aumentando la pressione ematica interna al filtro, posizionando un morsetto sul tubo di deflusso del sangue, spesso non determinavano semplicemente lo spandersi del sangue nel liquido, ma addirittura violenti ed improvvisi schizzi tutt’intorno e sul sottoscritto. Alcuni, ricordo, arrivarono ad imbrattare addirittura il muro dietro di me… Veramente roba da Dracula! Mi sentivo quasi il “vampiro della dialisi”…
La cosa si protrasse, ogni qualche giorno, per un certo numero di mesi, sino a che il numero di test raggiunse un’entità abbastanza significativa. Mi restavano da effettuare solo più due o tre prove, ed io ero soddisfatto del lavoro fatto, e soprattutto avevo ormai superato il terrore che si fossero potuti verificare altri inconvenienti più gravi, oltre a quelli che vi ho già riferito.
Ma il giorno del terrore arrivò, ed il terrore fu grande, anche se retroattivo…
Mi mancavano solo più due o tre prove, come ho detto, ma il sangue era finito. Per cui sollevai la cornetta del telefono, chiamai la Banca del Sangue, e chiesi se potevano fornirmi ancora alcune sacche di sangue scaduto. Una gentile voce femminile mi rispose:
“Ma certo, dottore, quante ne vuole! Le serve sempre AU positivo?”.
La mia non fu una risposta, ma un urlo di disperazione:
“Noooooooo!”
“No? No? Come no? Non lo vuole più AU positivo? Come? Non lo ha
mai voluto AU positivo? Ma… Ma non stava facendo delle sperimentazioni sull’epatite..?”.

Giuliano Giachino


P.S. 1: sarà stato il destino o solo una fortuna sfacciata, ma, contrariamente a tanti miei colleghi nefrologi di quei tempi, io non mi sono mai ammalato di epatite…
P.S. 2:  (per i lettori non medici o infermieri): sangue AU positivo significa sangue contenente il virus dell’epatite B


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