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L'Acropoli di Atene

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



All’Acropoli di Atene, con 30 gradi all’ombra



All’Acropoli di Atene, Giugno 1995



L’annuale congresso dell’E.D.T.A. (Associazione Europea di Dialisi e Trapianto) si tenne, nel 1995, ad Atene. Conoscevo già la città per esservi stato, in vacanza, la bellezza di 25 anni prima, nel 1970, ed ero lieto di ritornarvi, poiché conservavo dentro di me, di quella prima volta, ricordi meravigliosi.
Allora ero ancora un medico volontario, non ancora assunto dall’ospedale; adesso ero addirittura primario, ero cambiato, disperatamente diverso da allora sia nel bene che nel male: mi ero sposato, avevo avuto un figlio, avevo perso mio padre, tante altre cose liete e meno liete erano accadute… Quanto tempo, quanto tempo era passato! Addirittura un quarto di secolo…
Ma, naturalmente, il tempo non era passato solamente per me, ma anche per tutti gli altri. In particolare, era passato per il professor Vercellone, il mio Grande Capo dei tempi andati, il quale tuttavia, pur già anziano e malato, non rinunciava a prendere parte alle riunioni scientifiche internazionali più importanti, ed era giunto ad Atene con il mio stesso aereo.
Nel corso del disbrigo delle pratiche di sbarco e poi durante il trasferimento in pullman dall’aeroporto all’albergo ateniese, mi resi conto del fatto che i colleghi delle Molinette – che io avevo lasciato da molti anni ormai, per trasferirmi in altre sedi di lavoro – dovevano essersi organizzati per “affidare” il Grande Capo, pieno di acciacchi e un po’ traballante, ad uno di loro, che si occupasse di lui durante il viaggio ed il congresso.
Vidi che il dottor X., in effetti, non lo mollava neppure per un attimo, rimanendogli sempre alle costole, aiutandolo, indirizzandolo e risolvendo qualsiasi problema o imprevisto avesse potuto verificarsi: ed era questo un compito tutt’altro che facile, poiché era evidente che il Grande Capo, pur malandato, non gradiva la cosa, mordeva il freno e non perdeva occasione per cercar di sottrarsi alla stretta “sorveglianza” a cui si trovava sottoposto suo malgrado.
Giunti in albergo, ciascuno di noi salì nelle proprie stanze per sistemare i bagagli: a dire il vero, io ero alloggiato in tutt’altro luogo, addirittura in un albergo a 30 chilometri da Atene, ma contavo di raggiungerlo in serata dopo il primo giorno di congresso. Per una rapida doccia, venni pertanto ospitato da un collega nella sua stanza, dopo di che ridiscesi nella hall dell’albergo.
Una volta sceso, la prima cosa che vidi fu il dottor X. aggirarsi qua e là con aria disperata, aprendo porte e scrutando nei corridoi, come se stesse cercando qualcosa – o qualcuno – senza trovarlo. Come mi vide, mi venne incontro un po’ agitato, dicendomi:
“Giuliano, non lo trovo più! L’ho accompagnato mezz’ora fa nella sua stanza, che adesso però è vuota! Ho pensato che fosse già sceso, ma non lo trovo neppure qui! Vuoi vedere che se ne è uscito dall’albergo, e da solo? E’ mezzogiorno, il sole picchia, ci saranno almeno 30 gradi all’ombra.. rischia un collasso! Chissà dove è andato..”.
Naturalmente, parlava proprio del Grande Capo, che era riuscito in qualche modo a far perdere le sue tracce.
Provo ancora adesso una piccola sensazione di orgoglio ricordando come – conoscendo a fondo il Grande Capo da oltre trent’anni - capii subito come risolvere la situazione. Risposi semplicemente: “Vieni, vieni, che te lo ritrovo io”, e mi avviai all’uscita dell’albergo.
Appena fuori, fummo investiti dalla luce accecante e dal calore di una splendida giornata di Giugno ad Atene. Mentre camminavo spedito verso la mia destinazione – il luogo in cui “sapevo” che lui sarebbe andato – X. mi seguiva dicendomi:
“Ma come fai ad essere così sicuro di trovarlo? E dove mi stai portando?”
“Ma all’Acropoli, naturalmente!”
“All’Acropoli? E perché?”
“Perché lo conosco bene, e sono assolutamente certo che è lì che è andato, e che non può essere andato da nessuna altra parte...”
E avevo ragione. Quando giungemmo, nel giro di dieci minuti e dopo aver salito di corsa sotto il sole un centinaio di gradini, sulla spianata dell’Acropoli, lo vedemmo subito, da lontano ed in piena luce: era seduto.. – seduto? Era praticamente accasciato su di un grosso pezzo di marmo millenario e, un po’ ripiegato su se stesso, guardava – immobile e silenzioso - in direzione del Partendone e dell’Erettéo.
Gli giungemmo vicino, gli chiedemmo premurosamente come stava, se tutto era OK, se aveva bisogno di qualcosa. Lui scosse la testa, fece un piccolo gesto con la mano continuando a guardare, e borbottò adagio qualche parola che non comprendemmo.
Ma tutto mi era chiaro, e non c’era bisogno di alcuna spiegazione.
Ormai anziano, malato, consapevole che i suoi giorni erano contati, certo che noi avremmo cercato di impedirgli di rischiare un’insolazione, non aveva voluto rinunciare, costasse quel che sarebbe costato, a rivedere ancora una volta l’Acropoli di Atene.
Con l’invincibile forza di volontà che lo aveva sempre contraddistinto, ce l’aveva fatta, a dispetto di tutti: e adesso era lì, a guardare per l’ultima volta quelle rovine, inondate da una luce che io credo non fosse solo la luce del sole, ma – almeno nella sua mente – anche la luce dell’arte, della storia, della filosofia, della bellezza.
Sin dall’inizio, ero stato certo che lo avrei trovato lì e in nessun altro posto.
In quel momento sentii crescere nel mio animo un moto di empatia per quel Grande Vecchio.
E oggi spero che il destino riservi anche a me, prima che giunga il mio turno, un breve momento come quello che toccò a lui quel giorno.

Giuliano Giachino



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