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L'Opera di Berlino

Le stanze dei ricordi - Racconti nefrologici > Livello 11



Die Macht des Schicksals (La forza del destino)




Berlino Est, Giugno 1971

Nel giugno del 1971 l’annuale congresso dell’E.D.T.A. (Associazione Europea di Dialisi e Trapianto) si tenne inaspettatamente nientemeno che a Berlino Est, “Die Hauptstadt der D.D.R.” (la capitale della Repubblica Democratica Tedesca), come veniva chiamata allora dal regime la parte della città sotto controllo sovietico.
Sin dalla sede del tutto inconsueta a quei tempi, fu quello – almeno per noi nefrologi torinesi – un congresso del tutto singolare, a cominciare dai viaggi di andata e ritorno, compiuti, assieme al Grande Capo, dal professor G.P., dal sottoscritto e, naturalmente, da Sandro A.
Il viaggio di andata consistette di un triplice volo aereo: Torino-Milano (il tempo di decollare che già si atterrava di nuovo), poi Milano-Praga ed infine Praga-Berlino Est; al ritorno, lo stesso delirio di decolli ed atterraggi, ma con Vienna al posto di Praga.
Cominciai a sospettare che si sarebbe trattato di cinque giorni movimentati sin dalla partenza, allorché, mentre - rilassati e tranquilli - prendevamo tutti e quattro un caffé al bar dell’aeroporto di Caselle, qualcuno di noi fece una qualche osservazione sul piccolo bireattore che vedevamo, attraverso la grande vetrata, muoversi lentamente sulla pista.
Il Grande Capo infatti, solitamente distratto, quella volta girò il viso, la tazzina in mano, verso la finestra, e subito lanciò un urlo agghiacciante:
“È lui! È lui! È il nostro aereo, e se ne sta già andando!”, gridò con voce stentorea, facendo voltare gli sguardi di tutti i presenti verso di noi: “È lui! È lui! Presto, corriamo!!”.  
Beh, quella volta aveva proprio ragione: quello era davvero il nostro aereo che già rullava sulla pista, e che raggiungemmo non so bene come, con una corsa trafelata.
Una volta atterrati e ripartiti da Milano, si arrivò finalmente all’aeroporto di Praga, dove ci attendeva una seconda sgradevole sorpresa: constatammo infatti che – contrariamente alle previsioni ed agli orari che ci erano stati forniti - non esisteva alcun tipo di coincidenza per Berlino Est, e che il nostro volo sarebbe partito solo otto ore dopo…
Approfittare dell’occasione per fare un rapido giro della città? Neanche a parlarne: ciascuno di noi portava sul passaporto la stampigliatura di un visto che prevedeva un ingresso – e uno solo – ed una uscita – e una sola – da Berlino Est (per questa ragione non potemmo neppure, nei quattro giorni del congresso, fare una fulminea puntata a Berlino Ovest), ma nessun visto di ingresso o di uscita dalla Cecoslovacchia.
A questo punto, la prospettiva - per nulla allettante - era quella di otto noiose e monotone ore di attesa, ma la realtà fu invece ben peggiore del previsto.
Il Grande Capo infatti, dopo meno di mezz’ora, ebbe una delle sue classiche uscite, per lui luminose, tragiche per tutti gli altri, e disse:
“Beh, possiamo usare questo tempo per riesaminare il poster e controllare che sia tutto a posto… Tra l’altro, io personalmente non l’ho ancora neppure visto. Tiratelo un po’ fuori!”.
Il poster – un enorme rotolo di cartone avvolto su se stesso, che Sandro - non so come - era riuscito a far passare come bagaglio a mano, venne subito svolto, spianato su uno dei tavoli della sala di attesa, e sottoposto al Suo esame. Lui lo guardò su e giù per qualche istante e – purtroppo per tutti noi – non lo gradì.
A Suo parere, non era fatto bene. I paragrafi non si susseguivano nella giusta sequenza. Le tabelle portavano didascalie troppo piccole. I nomi degli autori non erano nell’ordine giusto. C’erano alcuni orribili refusi di stampa. Persino i colori che avevamo usato non erano belli. In breve: il poster era da rifare da cima a fondo. Meno male che il nostro aereo tardava di otto ore, altrimenti avremmo portato a Berlino una cazzata!
Ricordo di aver nutrito per qualche minuto, nel profondo del mio animo, la segreta e blasfema speranza che non si sarebbero potuti trovare, lì nell’aeroporto, i materiali – fogli, colla, adesivi e quant’altro – necessari all’operazione, ma mi sbagliavo: Sandro aveva portato diligentemente con sé una piccola scorta di tutto quanto ed inoltre, pur essendo quello di Praga l’aeroporto di un paese comunista – e si era nel 1971 – ospitava (due corridoi più in la, e il grande Capo la trovò subito) una delle più fornite rivendite di articoli da cartoleria che io abbia mai visto…
Per farla breve, otto ore dopo, quando ci avviammo al decollo con Sandro che cammin facendo arrotolava di nuovo su se stesso il poster rifatto da cima a fondo, io lo seguivo chino e rattrappito incollandoci sopra le ultime letterine biadesive…
Accenno appena al problema della sistemazione alberghiera. I due Capi, seguiti da Sandro, scesero al miglior albergo della città – che non era poi un gran ché – ed in cui si svolgeva il congresso, situato proprio sull’Alexanderplatz; io invece avevo prenotato – in base al prezzo, naturalmente – un piccolo alberghetto decentrato, un’ala del quale – potete crederci o meno, ma era così – era ancora diroccata come era stata ridotta dai bombardamenti alleati del 1945. Aggiungo solo – ma non divulgate la cosa, per favore - che dopo la prima notte, accertato il prezzo dell’albergo dei Capi, Sandro si trasferì presso il mio albergo, dividendo con me il letto matrimoniale della mia stanza…
L’ultima sera – l’indomani si sarebbe ripartiti – era in programma la sontuosa cena congressuale: i Capi vi si recarono, mentre Sandro ed io rinunciammo, sempre per ragioni economiche (a quei tempi né io né lui eravamo ancora stati “strutturati”, cioè assunti dall’ospedale, e nelle nostre tasche la lira scarseggiava).
Durante il coffee-break dell’ultimo pomeriggio, mentre ero intento a pensare come diavolo trascorrere l’ultima sera senza essere colto da istinti suicidi, in una città sovietizzata assolutamente priva di qualsiasi attrazione mondana, mi ritrovai a sfogliare distrattamente un quotidiano tedesco abbandonato su un tavolo del bar: naturalmente, guardavo solo le immagini e le foto, il tedesco era per me, allora, ancora del tutto sconosciuto.
Un titolo in grassetto attrasse tuttavia la mia attenzione: “Die Macht des Schicksals”.
Si trattava per me di una mera accozzaglia di lettere, ma la scritta era seguita da un qualcosa che il sottoscritto – appassionato di lirica – era perfettamente in grado di capire: “…von Giuseppe Verdi”, e subito a seguire, la data di quel giorno.
Non v’erano dubbi, la scritta incomprensibile era chiaramente il titolo di un’opera di Verdi, che si dava in qualche teatro di Berlino. Chiamai Sandro, che già masticava un  po’ di tedesco per via della dottoressa Barbara M., che due anni dopo sarebbe divenuta sua moglie, ed appresi da lui che “Die Macht des Schicksals” altro non era che “La forza del destino”, di Giuseppe Verdi, teatro dell’Opera di Berlino Est, ore 19 di quello stesso giorno. Proposi a Sandro una serata all’Opera e lui, visto che proprio non c’era di meglio da fare, accettò.
C’era però un duplice problema da risolvere. Primo, lo spettacolo iniziava alle sette di sera ed erano già le cinque e mezza e, secondo, c’erano ancora, dopo il coffee-break, un paio di comunicazioni congressuali alle quali il Grande Capo ci aveva dato mandato di assistere, per esserne poi dettagliatamente informato durante il viaggio di ritorno.
Ma per Sandro cose di questo tipo non rappresentavano mai un problema, ed infatti mi disse rapidamente, un attimo prima – come faceva sempre - di entrare in azione e scomparire alla mia vista:
“OK, c’è giusto il tempo. Io vado a prendere i biglietti e ti aspetto davanti all’ingresso del teatro. Tu ascolti le comunicazioni e mi raggiungi con un taxi. Ciao”.



Purtroppo, le comunicazioni che dovetti ascoltare durarono un po’ più del previsto, per cui quello che – pochi minuti prima dell’inizio dello spettacolo - salì di corsa una delle gradinate che portavano all’ingresso del teatro (lo vedete nella foto) fu un Giachino trafelato ed ansante, che già prima di arrivare si rese conto che davanti all’ingresso non c’era nessun Sandro ad aspettarlo.
Pensai: “Senza dubbio Sandro è già dentro!”, e spinsi la porta per entrare a mia volta. Ahimé, al posto di Sandro, proprio di fianco alla porta, c’era un usciere del teatro, tedesco “doc”, che mi sbarrò la strada con aria truce, blaterando qualcosa di incomprensibile che era la richiesta del biglietto d’ingresso.
Queste sono le occasioni in cui entrano in giuoco, e si rivelano decisive, le qualità mimico-giullaresche di noi italiani. Mettendo in atto un’incredibile pantomima di gesti e sproloquiando in tre o quattro lingue diverse, cercai di spiegare la situazione al mio uomo: “I dont’ have any tiket, io non ho il biglietto.. but mon ami Sandrò, qui va arriver now… il a due… deux… two… zwei… biglietten! Laissez-moi to go in, bitte! Je suis un médecin du congrés de nefrologie…” E mentre così parlavo tiravo fuori e gli mettevo sotto il naso passaporto, carta d’identità, prenotazione alberghiera, la tessera di iscritto all’E.D.T.A. e perfino quella dell’ordine dei medici della provincia di Torino.
Come fu, come non fu, l’usciere – probabilmente solo per pietà o per togliersi di torno un assatanato – mi lasciò entrare. Io mi precipitai dentro mentre già le luci si spegnevano, trovai il mio posto, mi sedetti ed assistei al primo atto.
Nell’intervallo tra il primo ed il secondo atto, nel foyer, ritrovai Sandro, che, senza darmi il tempo di chiarire come fossero andate le cose, mi chiese di raccontargli la trama dell’opera, che lui non conosceva. Io cominciai, e grande fu il mio stupore quando lui mi interruppe dicendo: “Ma, Giuliano, io non ho visto nulla di tutto questo!”.  
Ora, occorre che voi sappiate che il primo atto de “La forza del destino” di Verdi è diviso in due parti, un prologo e l’atto vero e proprio, separati tra di loro da un breve intermezzo a luci spente, necessario per il cambio della scena: Sandro non aveva visto il prologo, e quindi era entrato in teatro addirittura dopo di me!
Che cosa era successo? Era successo che Sandro, acquistati i biglietti, si era messo, come d’accordo, ad aspettarmi in cima alla scalinata. Dopo qualche tempo, visto che io ero in ritardo, aveva adocchiato un bar sull’altro lato della strada, proprio di fronte al teatro, ed aveva deciso di andare a prendersi un caffé. Ed era proprio mentre lui era nel bar che io ero arrivato, si era svolto il mio demenziale colloquio con l’usciere ed ero infine riuscito ad entrare…
Una volta preso il caffé, Sandro si era messo di nuovo, diligentemente, ad aspettarmi sulla porta… e l’usciere tedesco, crucco ma per nulla stupido, avendo compresa la situazione, gli si era avvicinato invitandolo ad entrare…
…ma Sandro, preciso e ligio alla parola data, aveva resistito per venti minuti buoni al suo invito: “Nein, nein! Io dofere aspettare qvi il mio amico…!”.
E così si era perso metà del primo atto, mentre io ero già dentro e seduto al mio posto…!
Cose che capitano… solo a noi?

Giuliano Giachino


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